Israele? Per i suoi nemici non è uno Stato ebraico

Oggi compie 61 anni, ancora non lo vogliono chiamare per nome e dicono che non aveva diritto a nascere. Ha perso 22.570 soldati in guerra, 3.000 cittadini in attentati terroristici, ma la popolazione non ha abbandonato le case di pietra, i vicoli, i ristoranti di Gerusalemme, né sono rimasti spopolati spiagge e pub di Tel Aviv; nessuno ha smesso di frequentare le scuole o le università; l’high-tech è fra le prime, la musica della Filarmonica fra le più apprezzate del mondo, la medicina, la fisica, l’agricoltura producono premi Nobel, l’Alta Corte è un esempio di correttezza. Eppure, secondo alcuni, a 61 anni lo Stato ebraico è lì per caso, paracadutato in un’area con cui non ha niente a che fare, solo per realizzare un vasto disegno colonialista e razzista, oppure, secondo altri, è stato edificato per riparare ai sensi di colpa degli Europei dopo la Shoah, che per altro non è esistita. Insomma, deve sparire: lo dicono Ahmadinejad, Hamas, gli Hezbollah, e altri lo pensano. Ad Abu Mazen, Netanyahu propone di ricominciare a discutere su «due Stati per due popoli» purché il rais riconosca Israele come Stato Ebraico, ma egli ha ripetuto anche lunedì che non accetta, e il motivo è evidente: non vuole permettere che ciò diventi un ostacolo per il «diritto al ritorno» o per l’idea di Israele come «Stato dei suoi cittadini». Arafat a Camp David rifiutò la Spianata delle Moschee pur di non riconoscere quella che è un’affermata verità storica registrata in tanti testi musulmani, ovvero che sotto la Spianata giacciono le memorie del Grande Tempio ebraico di Erode distrutto nel 70 d.c. dai Romani.
Il popolo ebraico mise le sue radici in Israele più di 4000 anni fa, il re David ne unificò le dodici tribù e fece di Gerusalemme la città ebraica per eccellenza, mai abbandonata del tutto anche in tempi di letali persecuzioni. Nell’Ottocento (ben prima della Shoah) gli ebrei tornarono ad esservi maggioranza. Intanto, quale che fosse il signore del tempo, crociati, arabi, ottomani, anche Tiberiade, Rafah, Gaza, Ashkelon, Jaffa, Cesarea, Safed, Haifa, Nablus, videro sempre, nei secoli, gruppi di ebrei attaccati alle loro pietre. Un popolo con la sua lingua e le sue usanze a casa e nella grande diaspora. Nella diaspora nacque il sionismo, il movimento che ha riportato gli ebrei a casa.
È nell’Ottocento e nei primi anni del Novecento (Tel Aviv fu fondata nel 1909) e non dopo la Shoah che il sionismo si organizza, si fonda l’Università di Gerusalemme, la Filarmonica di Tel Aviv, si muore di malaria bonificando le paludi, si fonda la scuola d’Arte Betzalel di Gerusalemme, Toscanini dirige la Filarmonica di Tel Aviv, si organizza l’immigrazione clandestina nonostante un’opposizione europea (altro che sensi di colpa!) che affonda o respinge le navi che portano i profughi anche durante la Shoah... Gli ebrei vivono la loro storia di irredentismo come tanti altri popoli, e nel 1917 la dichiarazione Balfour è il primo documento che riconosce il loro diritto all’autodeterminazione. Lontano dalla Shoah. E Churchill diceva che nessun popolo come quello ebraico è legato alla Palestina.

Anche l’immagine dell’arabo ignaro penalizzato dall’imperialismo, è falsa: basta pensare a Haj Amin Al Hussein, leader palestinese amico molto attivo di Hitler, ai nazisti nascosti in Egitto, all’odio antisemita che mise in fuga dai Paesi arabi 800mila ebrei. Essi trovarono un approdo appunto, nello Stato ebraico. È interessante: quelli che lo negano, paradossalmente, creano l’evidente indispensabilità della sua esistenza.

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