Israele, perché i corpi sono sacri

Per comprendere l’importanza, la passione, i dubbi, il conflitto di sentimenti e interessi politici che accompagnano il voto del governo israeliano in favore dello scambio di prigionieri elaborato nel corso di oltre un anno dal mediatore tedesco fra Israele e Hezbollah, occorre tener presente i molteplici contrastanti elementi che quest’intesa comporta: 1) Politici. L’accettazione da parte d’Israele rappresenta un successo di Hezbollah. Si tratta per Israele di dare in cambio di due soldati israeliani probabilmente morti - Ehud Goldwasser e Eldad Regev - e di notizie precise sul pilota Ron Arad, abbattuto in Libano nel 1986, uno dei capi dell’organizzazione sciita, Samir Kuntar, responsabile d’eccidio terrorista nel 1979, alcuni corpi di miliziani libanesi e un numero ancora imprecisato di palestinesi. La liberazione di questi ultimi conferma l’influenza di Hezbollah, legato all’Iran sulla Palestina. 2) Sicurezza. La strenua opposizione dell’intelligence allo scambio nasce dal fatto che rappresenta un duplice invito ai nemici d’Israele. Il primo a continuare a catturare israeliani sapendo il prezzo che possono trarne. Il secondo è a non curare eventuali soldati catturati feriti, sapendo che il valore di un cadavere per Israele è uguale a quello di un militare vivo. 3) Ideologici. Un sacrosanto principio delle forze armate è sempre stato: «Mai abbandonare un compagno d’armi» al nemico. Onorato in tutte le guerre d’Israele, ha perduto un po’ del suo «fascino» in una società sempre più individualista, borghese e socialmente ineguale. Le pressioni delle famiglie dei prigionieri unite al potere dell’informazione globale sono diventate sempre più forti sul governo anche a causa di precedenti considerati da molti disonorevoli, come la decisione di Ariel Sharon nel 2003 di rilasciare 400 terroristi palestinesi per i resti di tre soldati catturati in Libano e un ex colonnello «fellone», Elhanan Tennembaum, rapito da Hezbollah e di cui non sono ancora chiari i ruoli avuti come uomo d’affari nei Paesi arabi.

Se si mettono assieme tutti questi elementi, la sofferenza delle famiglie, le incertezze del governo impegnato a non mettere in pericolo la liberazione del caporale Gilad Shalit nelle mani di Hamas e l’enorme rispetto religioso che l’ebraismo ha per il morto, si comprende perché Olmert abbia richiesto il placet del governo prima di dare il via all’accordo, confermando, contro ogni tipo di modello politico corrente, che Israele non è né uno Stato, né una nazione, ma - come le sue origini bibliche affermano - una grande, spesso divisa e rissosa «famiglia allargata». L’unico modello che spiega dove risiede la sua forza, la sua unità e la sua complessa identità.

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