da Istanbul
«Non ho paura. So che combatto per due cause giuste e continuerò a farlo». Sono state queste le ultime parole di Hrant Dink durante l'intervista rilasciata al Giornale lo scorso 10 dicembre. E ieri, nel centro di Istanbul, a pochi metri dalla sede della rivista Agos, che Dink, giornalista di origine armena, dirigeva da 11 anni, quella parte di Turchia che è solo capace di odiare gli ha presentato il conto.
Un giovane detà intorno ai 18 anni con un cappello bianco e jeans, come hanno riferito i testimoni, ha aspettato Dink vicino all'ingresso della redazione e gli ha sparato tre colpi di pistola a bruciapelo alla testa e al petto. Il giornalista è morto sul colpo. Gli inquirenti in realtà pensano che il killer avesse un complice. Ieri a tarda sera la polizia di Istanbul ha arrestato tre sospetti.
Hrant Dink, 52 anni, era considerato uno degli intellettuali più scomodi della Turchia per le sue battaglie contro l'articolo 301 e per il riconoscimento del genocidio armeno da parte del governo di Ankara. E anche per le sue vicende giudiziarie. Processato tre volte con l'accusa di aver infranto l'identità nazionale (larticolo 301 appunto), il 12 dicembre scorso era stato riconvocato in tribunale, su iniziativa di Kemal Kerencsiz, l'avvocato ultra nazionalista già fautore dei processi contro Orhan Pamuk ed Elif Shafak. Parlando sempre con il Giornale, Hrant Dink aveva definito «ingiusto» l'accanimento della giustizia turca nei suoi confronti, dicendo che era perseguitato a causa della sua origine armena.
Il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha definito l'omicidio del giornalista «un duro colpo all'unità del Paese». Ma ormai è troppo tardi. Dink aveva subito più volte minacce di morte. La sua rivista, per motivi di sicurezza, non aveva neppure potuto mettere un'insegna fuori dal portone sebbene si trovi in uno dei quartieri più eleganti di Istanbul. Il 12 dicembre, fuori dal tribunale di Sisli, non c'erano i soliti contestatori nazionalisti ma uno striscione dove c'era scritto che Dink l'avrebbe pagata cara. E così è stato.
Lo hanno ucciso a sangue freddo, a causa di un massacro che Ankara non vuole riconoscere e di un articolo che la stessa Unione Europea ha chiesto più volte al governo Erdogan di cambiare. Olli Rehn, Commissario all'Allargamento, che più volte ha fatto pressione perché i processi contro Dink venissero sospesi, ieri si è detto «scioccato per quest'atto di violenza».
I turchi, in compenso, hanno dovuto fare i conti per l'ennesima volta con le due facce del loro Paese. Ieri sera, davanti alla sede della rivista Agos e sulla Taksim Meydani sono arrivate migliaia di persone. Intellettuali, privati cittadini, armeni e turchi. La maggior parte per piangere la morte di Hrant Dink. Ma alcuni anche per contestare. Distrutta la famiglia del giornalista, che era sposato con tre figli. «Lo hanno ammazzato di spalle - ha detto urlando Sena, la figlia di Dink - non hanno nemmeno avuto il coraggio di guardarlo in faccia». Sennuz Sezer, membro dei sindacato dei giornalisti, ha dichiarato: «La morte di Hrant Dink è la dimostrazione che in questo Paese intellettuali, scrittori e giornalisti corrono molti pericoli. È inammissibile che sia successo. In un Paese veramente democratico queste cose non succedono». Ancora più duro Bedri Baykam, pittore turco e intellettuale vicino al circolo della rivista Agos di Dink. «La Turchia non è più un Paese democratico. I principi di Atatürk sono andati persi completamente».
Davanti al numero 192 della Halaskargazi Caddesi, davanti al portone che Dink aveva varcato tante volte, è stata messa un foto del giornalista con una corona di gerani rossi. Tanti urlavano «Hepimiz Hrant'iz, hepimiz Ermeniyiz», «siamo tutti Hrant Dink, siamo tutti armeni». In molti sono arrivati con in mano l'ultimo numero di Agos, la rivista in lingua turca e armena per la quale Dink aveva lottato tanto.
Il suo ultimo articolo, datato 10 gennaio, è paradossalmente un testamento spirituale. Hrant Dink aveva parlato della sua lunga vicenda giudiziaria e delle due battaglie che portava avanti da anni, chiedendo al governo risposte concrete e aveva aggiunto, per la prima volta, di sentirsi a disagio in un Paese che non lo voleva.
Parlando con il Giornale della sua lotta per il riconoscimento del genocidio armeno del 1915, Hrant Dink aveva detto: «Quello che voglio è vedere i turchi che parlano di quanto è successo.
La sua voce ieri è stata spezzata da quella Turchia, ultra nazionalista e fanatica, che il dialogo non lo vuole.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.