Il fatto avvenne di notte. Già questo lo rese affascinante. E a colori, nel senso della trasmissione televisiva, con il «misterioso» sistema Pal. Dunque epico, almeno per i tempi. Fino ad allora le magliette azzurre risultavano di un grigio malinconico, un po’ come le facce dei nostri eroi, da Pascutti in giù. Quel giugno del Settanta scoprimmo il blu di Boninsegna e di Riva, di Mazzola e Rivera e in panchina... Zoff, come cantava Fausto Cigliano. Addirittura una canzone, perché il mondiale messicano meritava una melodia, lenta come il popolo con il sombrero. Italia-Germania fu ed è ancora el partido del siglo, la partita del secolo. Sette gol, con i supplementari a corredo, la voce di Nando Martellini, il profumo di un’estate lunghissima, quella notte esaltante. Gianni Brera rischiò l’infarto, lo mise per iscritto ma per spiazzare la concorrenza spiegò che quello non fu calcio ma gag, tra autogol, difese balenghe, distrazioni collettive che potevano mandare in paradiso soltanto i «pori nani messicani». In verità fu roba tosta per le coronarie, con l’additivo del technicolor e del fischio d’inizio. Quarant’anni fa o forse domani sera perchè la Milano di Rivera ma anche di Schnellinger, di Burgnich e di Bonimba, l’ha trasformata in un museo con quel che resta di quel giorno, il biglietto della partita, settore c, posto numero 20156, il pallone Telstar a pentagoni bianchi e neri che mai s’era visto prima di quel mundial, brandelli di un passato che non è mai passato perchè eterno, immortale, ripetibile all’infinito perche irripetibile per sempre. Italia Germania è durata una notte ma non è finita mai, nemmeno adesso, tantomeno adesso che ha un museo come la Gioconda, Giuseppe Verdi, i padri della Patria, a eterna memoria come se l’avessimo perduta.
La partita incominciò il 17 di giugno e terminò il giorno appresso. Così scriverebbero i poeti argentini, infatti qualche secondo prima di mezzanotte l’arbitro Yamasaki, messicano di passaporto, diede inizio alla contesa che si concluse oltre le due, nostrane mentre in Messico il sole stava per calare. Era una cosa dell’altro mondo, appunto, con i calciatori stremati, l’altura, le corse, i colpi negli stinchi, le due ore di pallone. Quando Bonimba (gonghi) (Roberto Boninsegna secondo appellativo di Brera al quale il mantovano ricordava, per il carrello basso, i nani dei circhi equestri, i bagonghi appunto) mise dentro dopo otto minuti il gol, sembrava già di essere in paradiso, belli chiusi in difesa, mentre Gianni Rivera stava seduto in panchina ad osservare l’evento aspettando il proprio turno, per ragioni politiche e non tattiche.
Venne il biondo Schnellinger, milanista dell’ostia, a segnare il pari quando ormai la partita era finita, furono maledizioni e insulti al crucco milanista che ci aveva svegliato dal sogno, allungando la nottata. Proprio quel gol significò l’inizio di un altro film, del kolossal italotedesco, i supplementari che Martellini, secondo leggenda, definì, in pieno stress, «due quarti d’ora di quindici minuti l’uno». Si vide Domenghini trascinare un corpo messo assieme per sbaglio: il suo. Le gambe si erano allungate, le braccia che penzolavano disarticolate, il capo ciondolante come un ciuco, Domingo sembrava Pippo di Walt Disney ma resisteva, resisteva, resisteva, come De Sisti, mentre Rosato si era incriccato sulle sue ginocchia valghe e aveva dovuto cedere il posto al granata Poletti. Ricky Albertosi, tra una sigaretta e un’altra, parava l’impossibile mentre i due nani, Gerd Muller e Uwe Seeler sembravano giganti con le molle sotto i piedi. Proprio Muller, con il 2 a 1, ci mandò nell’incubo. Era necessario il miracolo, provvide addirittura Burgnich Tarcisio che teneva un fratello prete, dunque esperto in materia.
Giggi Riva fece finalmente sentire il suo Rombo di Tuono, quindi Muller riprese un pallone morto, Rivera stava sul palo come da indicazione di Albertosi; invece di intervenire in salvataggio battezzò fuori il pallone che finì in rete. L’immagine storica fu la seguente: Rivera abbraccia come uno stanco ballerino di lap dance, il palo, è un martire che sta per essere crocifisso, Albertosi, di fianco, prima strabuzza gli occhi e poi parte con il rosario, Rivera se la svigna, palla al centro, De Sisti tocca, Boninsegna vola, manda a ramengo, con due scossoni, Schulz, crossa all’indietro nell’area tedesca, senza sapere chi ci fosse ma sicuro che qualcuno là ci dovesse essere, spunta il transfugo Rivera, piazza il pallone in controtempo, è gol, Maier sembra sgravare, le gambe aperte, la postura dalla parte opposta alla traiettoria, QUATTRO A TRE.
É finale. In Italia sono le due e mezzo di notte, è giovedì. Almeno così dicono. Per molti è carnevale, pasqua, natale. Dal Trentotto non eravamo in finale. C’era stata la guerra. Mondiale anche quella.
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