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Italia del rugby verso il mondiale. Bergamasco: «Noi, mai così performanti»

In ritiro in Alto Adige, gli azzurri preparando la spedizione in Nuova Zelanda: ma continua l'infornata di presunti oriundi.

In tempi di incertezza, ci si aggrappa alle parole: specialmente a quelle che non si capisce bene cosa vogliano dire, e quindi non rischiano di essere smentite dai fatti nell'immediato futuro. Così Mauro Bergamasco, veterano dell'Italia del rugby, dal ritiro azzurro in Val Pusteria - dove si sta preparando la spedizione ai mondiali di settembre in Nuova Zelanda - fa sapere che a suo avviso la nazionale non è mai stata così «performante». Il che non vuol dire proprio che non è mai stata così forte, anche perché ci vorrebbe un bel coraggio a sostenerlo, ma comunque suona bene. Anche se i maligni potrebbero far presente che l'aggettivo «performante» viene a volte associato ai materassi.
La parte del materasso, d'altronde, l'Italia l'ha già svolta - volente o nolente - in più di un mondiale. Tanto che non è mai successo che gli azzurri passassero alla seconda fase del torneo, quello dove approdano solo le squadre che contano davvero nella pallaovale planetaria. E la stagione appena conclusa non induce all'ottimismo: certo, nel bilancio brilla come una pepita la vittoria a Roma contro la Francia, che da sola vale a riscattare tante prestazioni meno gloriose. Ma i limiti di gioco degli azzurri sono sotto gli occhi di tutti. E l'idea di andare ai Mondiali con un commissario tecnico già con le valigie in mano - Nick Mallett, cui la Fir ha dato incautamente il benservito prima della missione iridata - non appare il viatico migliore per un miglioramento in corso d'opera.
I limiti della gestione Mallett - che in realtà andrebbe chiamata Dondi-Mallett, avendo il presidente federale condiviso e istigato buona parte delle scelte del tecnico - sono ancora tutti attuali. A partire dalla sciagurata incetta di finti italiani con cui rimpinzare e tenere a galla la nazionale: ultima puntata, proprio pochi giorni fa, quando il mediano di apertura Craig Gowen (italianissimo, come si intuisce dal nome!) ha annunciato il suo ritiro dai Mondiali per motivi di salute, ed è stato rimpiazzato con un altro italiano cento per cento: Kristopher Burton, mediano di apertura della Benetton Treviso, australiano, 31 anni, accreditato di non meglio precisate ascendenze italiane da parte di madre. Il campionato, insomma, sembra considerato dai vertici federali incapace di produrre un mediano di apertura (ovvero un regista) degno di affacciarsi alla nazionale (eccezione fatta per Riccardo Bocchino degli Aironi, nei cui confronti in passato è stata peraltro mostrata una fiducia prossima allo zero).
Alle spalle, insomma, c'è l'eterno problema del vivaio, della produzione di giocatori di livello da parte del rugby di base. Un tema che la Federazione ha tentato di affrontare in passato con progetti da eugenetica nazista come il «Progetto Altezza», che consentiva l'accesso alle selezioni giovanili solo ad atleti che superassero un determinato numero di centimetri: con buona pace di quel che migliaia di allenatori qua e là per il paese si affannano a spiegare a chi si avvicina a questo sport, e cioè che un buon rugbista non si misura con il metro. I risultati si sono visti in occasione dei Mondiali under 20, disputatisi il mese scorso in Veneto, dove l'Italia ha inanellato una serie di disarmanti figuracce: al punto di celebrare come un successo, «Missione compiuta!», l'unica vittoria contro le sperdute Tonga. Il selezionatore azzurro Andrea Cavinato, psicologicamente provato dalle batoste, ha reagito prendendosela con le squadre che non fornirebbero ai giocatori il bagaglio tecnico di base. Poi ha fatto un po' marcia indietro.

Ma il brutto spettacolo l'ha detta lunga sullo stato di salute - chiacchiere a parte, dove siamo bravissimi - della pallaovale nostrana.

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