La rapina in banca è appena finita. Il Numero Uno, il capo del commando, non perde tempo. L’Onorevole lo aspetta nel suo attico, a meno di duecento metri da Montecitorio. L’Onorevole esamina velocemente il contenuto della cassetta di sicurezza portata dal Numero Uno. Quel che cercava non c’è. Non importa, l’Onorevole «è un uomo che conosce le soluzioni». E si muove a proprio agio al crocevia dei segreti italiani. Per questo Patrick Fogli ne ha fatto uno dei protagonisti del suo ultimo romanzo, Il tempo infranto (Piemme). Un libro aggrovigliato, fluviale, bulimico che prova a scendere nelle segrete del potere, scandagliando le pagine più oscure della storia italiana. In particolare, la strage di Bologna, quel 2 agosto 1980 che resta forse la ferita più profonda e insondabile della storia italiana del dopoguerra. Ci sono, va da sé, le spie, fra cui Numero Uno; poi i potenti, in testa l’Onorevole; a seguire i fascisti e le vittime che tutti calpestano come un tappeto logoro. C’è sullo sfondo l’ossessione per quell’esplosione che ha squarciato la nostra storia. E c’è il tentativo di collegare il prima e il dopo, il passato e il presente saltando in continuazione avanti e indietro. Il primo capitolo è datato 3 novembre 2007, ma dopo poche pagine si torna indietro al 3 maggio 1979. Tutto serve per capire quel che non è chiaro.
O forse lo è. Forse il nostro Paese, ora anche la nostra letteratura, è ammalato di dietrologia. Predilige con toni visionari i burattinai, i grandi vecchi, i manovratori. Forse, il fallimento, almeno parziale, del tentativo di riscrivere la storia patria per via giudiziaria ha prodotto per reazione la convinzione che la verità sia schermata da entità oscure, logge massoniche, servizi deviati - mai una volta che non lo siano - e quant’altro. Fogli scava con passione e con ritmo per centinaia di pagine fra le macerie della Stazione di Bologna.
Un altro romanziere, Roberto Cotroneo ne Il vento dell’odio (Mondadori), va a cercare in un tramezzo la verità sul caso Moro. E sulla lunga, dolorosa stagione del terrorismo. Il risultato è addirittura sconvolgente: si scopre che il padre di un terrorista che ha ucciso e sognava la rivoluzione era un agente dei servizi, in qualche modo ha guidato a distanza il figlio, naturalmente a sua insaputa, gli ha affiancato un suo uomo, sapeva tutto di lui in tempo reale. Dall’altra parte, veniamo a sapere che i verbali di Moro sono finiti in mano a una potenza straniera dell’Est. Insomma, fra Gladio e Gladio rossa non c’è spazio, o ce n’è pochissimo, per la libertà d’azione dei singoli. La storia, la nostra storia è chiusa dentro una tenaglia manovrata da potenze occulte. Chi ha imbracciato il mitra, e magari si è fatto pure anni di carcere, chi credeva di poter incidere sul processo storico, ha sbagliato in pieno i suoi conti. Dietro, altri hanno deciso.
La nostra narrativa è colma di storie così. In fondo discendono tutte da Romanzo criminale (Einaudi, 2002) di Giancarlo De Cataldo, il capostipite di questa letteratura. Basta scorrere il risvolto di copertina per assaggiare questa Italia che intreccia i protagonisti da strada - Il Libanese, Il freddo, Il Secco - i malavitosi della Magliana e dintorni, e i personaggi del Palazzo - il giudice, il commissario di polizia, le barbefinte. L’insegnamento che i De Cataldo e, dietro di lui i Fogli, i Cotroneo e tanti altri ci consegnano è chiaro: in Italia il confine fra male e bene non è netto. La famigerata zona grigia è la terra in cui tutto si ribalta e chi dovrebbe difenderci dalle tenebre è spesso, dietro mura impenetrabili, l’artefice luciferino di sciagure, attentati, avventure golpiste. Chi indossa la divisa pulita è spesso più sporco del più sporco dei criminali.
Carlo Lucarelli ha espresso questa visione complottista e notturna in un’intervista a Repubblica: «L’Italia è il paese dei segreti, non dei misteri». Naturalmente si può capovolgere questa immagine: l’Italia è la terra dei misteri. Non dei segreti. I misteri non nascondono un altrove impenetrabile. In fondo al mistero, si accende, prima o poi, la luce. Troppo facile. E allora ci si ostina, alla Cotroneo, a infilare lo zampino del Kgb o della Cia in cabina di regia, dietro le Br.
L’esplorazione di realtà inconfessabili per definizione continua inarrestabile. Riempie gli scaffali della saggistica. E avanza anche nella narrativa. Un testo riassuntivo in tal senso è Omissis, l’antologia di racconti pubblicata l’anno scorso da Einaudi: diversi autori si cimentano con la zona grigia, con l’intrigo, con la menzogna. Col segreto, come luogo ostile della doppia verità. E ci consegnano un’Italia in mano alle forze del male. Piero Colaprico, nel Le foglie di villa Rachel, ci porta nella cella di Pedro, un criminale dal viso abbronzato e dal curriculum lungo così. Pedro è preoccupato, Gheddafi ha deciso di vuotare il sacco, lui per un certo periodo è stato pagato dai libici per far fuori gli oppositori. Ma Pedro sopravvaluta la propria furbizia. A Roma su tutto vigila il professor Guglielmo Catalpa, 007 e capo della potentissima Organizzazione. E l’Organizzazione toglie di mezzo Pedro e il suo amico di prigionia, il Lungo. Uno scenario agghiacciante. Ma non è molto diverso il racconto che segue: Il sommozzatore di Piergiorgio Di Cara. Qui lo Stato e la mafia vanno a braccetto, anche la più piccola imperfezione viene eliminata con spietatezza e ogni livello di potere non sa se quello superiore gli è amico o nemico in un gioco mortale.
Il potere è malvagio, il potere nasconde, il potere insabbia. Il racconto Praticamente una foto segnaletica di Antonio e Gianni Cipriani sceglie un’altra data drammatica, l’ennesima della nostra storia, il 31 maggio 1972 e un puntino di sangue sulla carta geografica, Peteano, trappola mortale per tre carabinieri.
I Cipriani seguono il binario del tempo fino alla meta degli anni ’80: togliere quel velo può essere molto pericoloso. Nell’Italia dei poteri forti il tempo non è galantuomo. Anzi, è il principe dell’omertà e tiene la bocca chiusa. Chi la apre, invece, è destinato ad uscire di scena.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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