Itinerario spirituale di un «genio femminile»

Dell’intreccio fittissimo intessuto da Hannah Arendt in una vita di relazioni amorose e liaisons pericolose, lacci teoretici e nodi politici, Julia Kristeva estrae un solo filo, sottile e tenacissimo. Quello del «genio femminile» che - in un trittico ideale, e in una trilogia di saggi biografici - ad altre due femmine geniali la annoda: Melanie Klein e Colette. In Hannah Arendt. La vita, le parole (Donzelli, pagg. 296, euro 23), la semiologia francese - nata in Bulgaria nel 1941, docente di linguistica all’università di Parigi, esponente di punta dello strutturalismo d’Oltralpe - indica uno dei vertici fulgidi di una costellazione triangolare che, nel crepuscolo chiaroscurale del Novecento, nel tramonto dell’Occidente europeo e planetario, si accende nel fervido impegno di tre donne. Per illuminare il buio dell’anima, «gli abissi della psiche umana» con le ricognizioni di Melanie Klein. Per «ravvivare la fiamma dei materialisti e del libertinaggio sofisticato» con la scrittura di Colette (Donzelli, 2004). Per far scoccare «il lampo della sorpresa» su quella vita che, agli occhi della Arendt, ebrea tedesca in fuga da un’Europa incendiata dalla guerra e incenerita nei campi della morte, appariva ormai «superata - scriveva -, uniformata, banalizzata: resa sicura da quella stessa tecnica» che aveva contribuito premeditatamente ad annientarla. Per onore della vita e «per amore del mondo», la pensatrice che dell’amore, scrivendo la sua tesi di laurea, aveva inseguito il concetto nelle pagine di Agostino e della vita, scrivendo il suo capolavoro, aveva scoperto la minaccia più grave nelle Origini del totalitarismo, volle trarsi fuori dalle meditazioni rischiosissime della teoretica. Per votarsi con impegnata responsabilità alla teoria politica. «Io non appartengo alla cerchia dei filosofi!», protestò Hannah nel corso di un’intervista alla televisione tedesca in cui, racconta la Kristeva, ribadiva di voler piuttosto «guardare alla politica con gli occhi sgombri dalla filosofia». La cerchia dei filosofi, sapeva fin troppo bene la Arendt, poteva farsi stringente, asfissiante, soffocante. Molto meno ambigua, allora, la figura del triangolo. Specie se disegnato da tre donne: figure angolari dove si incunea e rimette pensosamente radici la vita.
Giusto una nota, infine, per segnalare il nuovo volume di Joachim Fest, massimo biografo di Hitler, che ai suoi Incontri da vicino e da lontano.

Da Thomas Mann a Hannah Arendt, da Ernst Jünger a Ulrike Meinhof (Garzanti) consegna uno dei più bei ritratti di sempre, nella sua essenzialità, della filosofa tedesca e dei suoi rapporti, nella loro complessità, con Martin Heidegger.

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