Iudice e Giuffrida, da Gela sguardi acuti sul mondo

Il realismo del maestro e le visioni alla Hopper dell'allievo fra le opere in mostra a Sutri

Iudice e Giuffrida, da Gela sguardi acuti sul mondo

Nella mostra a Sutri «Triste, solitario y final» sono esposti due artisti siciliani di Gela. Non c'è dubbio che, per le condizioni di vita, la Sicilia e in particolare Gela siano luoghi dove tutto è più difficile. Ma tutto ciò che nella vita sociale e lavorativa è un limite, diventa una esaltazione e una fortuna per la natura.

Da un lato Gela è il luogo del desiderio per i migranti che arrivano, con la speranza di una terra promessa che poi non rivela di essere tale; dall'altro c'è la vita di un singolare pittore di grande realismo, Giovanni Iudice. Egli pensa alla sua infanzia, alle sue spiagge, al suo mare, si contenta di quella condizione di privilegio che è essere nati in Sicilia. E allora immagina in molte sue opere i migranti, fino a spingerli in un paradosso assolutamente surreale: nel Canal Grande dipinto da Canaletto e dai grandi vedutisti, propone, accanto a una gondola, un barcone di migranti, in Nuvole a Venezia. Nella stessa immagine figurano il luogo più bello del mondo e la condizione di maggiore miseria, infelicità e dannazione. Come se fosse soltanto il caso a stabilire chi ha il privilegio di vivere a Venezia e chi ha la sfortuna di nascere in un luogo dell'Africa da cui non si può fare altro che partire. A quel punto, anche il luogo più bello del mondo perde la sua identità e diventa un luogo di disperazione o di solitudine o di mancanza di destino. Ecco, la fine del destino potrebbe essere questo dipinto con i piedi che appaiono tra le nuvole, al posto del volto di un Dio, indifferente al destino degli uomini.

E poi, per rappresentare la felicità di essere in Sicilia, Iudice dipinge Mario che dorme su un canotto, un amico suo e amico anche mio, che diventa come una divinità perché gode del massimo privilegio, fuori da tutto, fuori da qualunque rapporto sociale, nella solitudine, nella giornata felice, nel sole, sul mare, con il canotto. Non possiamo immaginare nessun'altra condizione migliore di questa, che non ha nessun vantaggio sociale ma è l'emblema di una felicità inevitabile e inconsapevole. Questo vale per tutta l'opera di Iudice, un pittore che non giudica la società ma ne rappresenta le contraddizioni come in L'annegato: in un luogo dove i turisti vanno per una giornata di festa, il destino porta il corpo di un naufrago, che arriva da luoghi da cui si vuole soltanto scappare e che trova la morte lungo il viaggio per mare.

Iudice ha generato un allievo, Emanuele Giuffrida. È una sorta di Hopper, o Ferroni, siciliano, in cui lo spazio vuoto, la solitudine, la malinconia fanno pensare a un'umanità provvisoria. Una specie di maledizione accompagna chi sta in luoghi così remoti del mondo e cerca una consolazione in una sala da gioco, in un jukebox, in un flipper, nel corso di una serata che è partita senza senso e finisce senza senso. Si entra in una stanza da cui si vedono altre stanze dove non c'è nessuno. Abbiamo trovato la rappresentazioni di questi spazi vuoti anche nelle opere di Gianfranco Ferroni, ma in Giuffrida sono luoghi di paese o di periferia, non stanze private, ma stanze pubbliche, luoghi pubblici per solitudini individuali. La solitudine di questi spazi è il soggetto prediletto da Giuffrida che, talvolta, mostra questi spazi anche popolati, e non per questo meno solitari.

Ad esempio, in The Illuminated, giovani con l'aria spaesata entrano e azionano le slot machine per cercare fortuna, in una stanza dove qualcuno ha disegnato cuori, simboli, emblemi di carte da gioco sulle pareti. La pittura è tendenzialmente inanimata, non vuole far brillare un particolare, accendere un punto in un fuoco di attenzione; i suoi biliardi, sotto le luci al neon, parlano di quanti si sono trovati per nessuna ragione qui, a passare il loro tempo perduto. Sono tavoli di morti progressive e notti disabitate. Un solo fascio luminoso riprende un pullman che vende panini nelle periferie, con sedie di plastica. La notte inghiotte la luce di questi pullman che si aprono, ma non esprimono né vita, né incontri, bensì ancora solitudine. Come quella di Outside Circus: rappresenta la fine di una serata del circo Orfei quando, sotto il tendone, si disperde il pubblico e si ricoverano gli animali. Uomini senz'anima, che sono stati visti mentre facevano giochi, prove di equilibrio, acrobazie e ora si infilano dentro capanne, desolate come tutto quello che resta, forme che tendono a finirsi, a consumarsi, a evaporare. È una singolarissima estetica, quella di Giuffrida, che continua quella del suo maestro Iudice e la porta a una pittura esistenziale di grande tensione espressiva e di grande qualità.

Sutri si pone all'avanguardia oggi, in Italia, nella proposta di una vera arte contemporanea e nel recupero di artisti dimenticati. È un momento importante per l'arte, testimonianza di come Sutri sia il centro del mondo attraverso l'offerta che viene da questa selezione di artisti apparentemente lontani e dimenticati, ma che saranno, da qui in avanti, presenti nella nostra memoria. Questa mostra è anche l'occasione per ricordare un grande ritrattista del nostro tempo: Wolfgang Alexander Kossuth. Uno scultore figurativo compostissimo, una sorta di erede di Francesco Messina, che ho conosciuto anni fa e ho sempre seguito con attenzione. Esiste anche un artista concettuale con lo stesso cognome, e Kossuth ha patito l'ingiuria di vivere nella penombra, perché era un figurativo, cultore della tradizione. Kossuth tanti anni fa venne a casa nostra e fece il ritratto di mia madre, che in parte corrisponde a lei, anche se con meno vigore. Del Monaco, Soldati, Carla Fracci, Bernstein, e altre grandi personalità che Kossuth ha incrociato ce le presenta come se fossero ancora con noi.

Se Kossuth ha rappresentato, come un maestro antico, i volti dei personaggi che ha incontrato, un'artista molto sofisticata e concettuale ha pensato che il suo compito fosse fare sculture che sembrassero prodotte non dalla forza dell'artista e del suo magistero, ma dalla natura stessa. La scultrice si chiama Marialuisa Tadei, e si muove con leggerezza nel mondo dell'arte cercando di ingannarla. Lei ha aggirato lo spirito dell'avanguardia con sculture che sono forme pure della natura, come le conchiglie. Marialuisa ha creato immagini della natura che hanno una grande credibilità, pur non corrispondendo a niente che sia parte del mondo vissuto dagli uomini. E continua così l'opera di Dio nella natura.

Infine Filippo Dobrilla è un maestro che io ho sostenuto, diventandone quasi parente e amico. Viveva solitario, fuori dal mondo, a Pontassieve, senza luce elettrica, come un redivivo san Giovanni Battista. Speleologo straordinario, ha compiuto una scultura a 600 metri di profondità nella terra. Aveva un magistero che arrivava direttamente da Michelangelo. Lavorava il marmo di Carrara. Era potente, forte, capace. Io l'ho portato a Milano e ho tentato di farne conoscere l'identità a molti miei colleghi per l'eccellenza del suo lavoro. Improvvisamente, è mancato. Era nato nel 1968 ed è morto pieno di forza, energia, entusiasmo.

Ha trovato un suo allievo e amico in uno dei miei allievi, formati alla scuola dura di Salemi, Stefano Morelli, che lo ha seguito nella vita e lo segue ancora attraverso la moglie e la bellissima figlia. Stefano ha recuperato una serie di gessi e sculture di questo artista che si è misurato con Michelangelo, Pontormo, con i classici, in un mondo in cui il mestiere e l'accademia sembrano abbandonati.

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