J’accuse di Bernheim: «Complotto in Generali»

L’acredine verso Gutty: «Spargeva bucce di banana». Il documento in cda che respinge le accuse di Serra e il confronto con i big europei

da Milano

La sua battaglia per restare alla presidenza delle Generali, almeno per il momento, l’aveva già vinta ma Antoine Bernheim sembra non trovare pace rispetto alle sferzate inferte dal fondo Algebris a fine ottobre. L’occasione è data dall’incontro con i dirigenti del Leone mercoledì scorso. L’anziano uomo d’affari transalpino rimarca il «complotto» subìto fino a definirlo «mafioso». L’acredine è ancora maggiore di quella riversata nelle scorse settimane dalle colonne di Le Monde: l’accusa è per quegli azionisti italiani, alcuni dei quali presenti nel cda del gruppo triestino, «che hanno utilizzato come un ariete il fondo Algebris per impossessarsi dei posti di comando dell’azienda e della compagnia».
La sala gremita alla stazione marittima di Trieste ascolta in silenzio; gli amministratori delegati Giovanni Perissinotto e Sergio Balbinot tacciono imbarazzati. Scortato dalla sua interprete l’ex uomo della Lazard parla per 40 minuti in francese, torna con la memoria a quando, «dopo aver fatto molto bene al vertice» delle Generali, è stato «mandato via per fare posto» a Gianfranco Gutty che «spargeva bucce di banana contro di me, nella speranza di farmi cadere». La resa dei conti è con gli avversari storici di Mediobanca, dove il presidente Cesare Geronzi qualche settimana fa aveva idealmente aperto la partita della successione a Bernheim, il cui mandato scadrebbe nel 2010. Il board del Leone ha poi però optato per lo status quo, motivando nella propria relazione il rigetto di tutte le obiezioni mosse da Algebris. La documentazione mostrata ai consiglieri confrontava il rendimento per gli azionisti della compagnia a quello delle sei principali compagnie europee: Axa, Allianz, Ing, Zfs, Aegon e Aviva con risultati lusinghieri per il gruppo triestino. Malgrado questo verdetto, Bernheim davanti ai suoi dirigenti è un fiume in piena: «Avevo lasciato un’azienda in ottima salute e avevo individuato nel dottor Perissinotto (che allora era un vicedirettore centrale, ndr) e nel dottor Balbinot le persone che avrebbero potuto guidare la compagnia». Il banchiere rimarca a riprova del lavoro svolto i 43 euro a quell’epoca raggiunti dal titolo in Piazza Affari.
Quotazioni molto diverse dai 15 euro segnati quando, ricorda Bernheim, «dopo la gestione Gutty», Perissinotto chiese a Mediobanca la rimozione del top manager, «minacciando le proprie dimissioni in caso contrario. Fece questo con molto coraggio, mettendo a repentaglio la propria carriera».
A quel punto è stato chiamato in soccorso dai grandi soci francesi di Piazzetta Cuccia, «in primo luogo il finanziere Vincent Bolloré», spiega il presidente delle Generali che oggi sono tornate «a prosperare». «Io sono francese... I due amministratori non hanno legami con la politica, né con alcun clan mafioso. Questo evidentemente dà fastidio a molti e hanno cercato di attaccarmi dicendo che sono vecchio», ha proseguito l’ottantatreenne Bernheim, assicurando di combattere «per impedire che l’azienda» cada in mani sbagliate. Quindi respinge il paragone con la francese Axa posto da Algebris per sostenere l’inefficiente gestione del Leone: «Hanno criticato la nostra governance», continua Bernheim, rimarcando però di non vedere «grandi differenze» con Axa.

Crescere è il miglior modo per «difendersi dalle aggressioni ostili», nota il banchiere, che infine si duole per le ripercussioni subite dal gruppo sull’asse bancassicurativo con Intesa Sanpaolo a causa della stretta di Antonio Catricalà e del ministro Pierluigi Bersani, «che ha cercato di smantellare la nostra rete di agenti».

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