Silvia Kramar
da New York
Nel buio fitto alcuni uomini con cannocchiali a infrarossi monitoravano i movimenti del pubblico, pronti a intervenire: sotto la giacca avevano un paio di manette. Ma non si trattava di qualche imboscata dei marines nella notte irachena, bensì delle guardie di sicurezza che controllavano che nessuno, tra la stampa invitata al Lincoln center nascondesse una piccola video camera per filmare anche solo poche immagini del film più atteso dell'anno: King Kong. Una cassetta pirata potrebbe valere decine di migliaia di dollari, nella frenesia di un'America che aspetta il suo grande ritorno.
Settantatrè anni dopo aver debuttato nelle sale di Hollywood, il gorilla più famoso della storia del cinema sta per tornare sugli schermi mondiali (il 14 dicembre in America, il 16 in Italia) nello splendore della nuova versione diretta da Peter Jackson, lo stesso regista che nel 2001 aveva fatto incetta di Oscar il primo episodio (La compagnia dellAnello) della trilogia tratta dal Signore degli anelli. E che per dirigere, riscrivere e produrre la nuova love story del gorilla sull'Empire State Building si è fatto pagare dalla Universal un cachet di venti milioni di dollari. Il suo King Kong imperversa sullo schermo argentato per ben tre ore, inserendolo nel novero dei rari film di 180 minuti come Titanic e, appunto, Il signore degli anelli.
Peter Jackson l'ha voluto così: grandioso e sublime, convincendo la Universal a non accorciarlo e assumendosi lui le spese (si dice 32 milioni di dollari) di quei trenta minuti in più di una pellicola che non ha avuto il cuore di far finire nel cestino della sala di montaggio. King Kong è costato 207 milioni di dollari, ma la bellezza della cinematografia e degli effetti speciali ne farà il kolossal di Natale. Dopotutto, quella di Jackson non era una passione qualunque: aveva nove anni quando, in Nuova Zelanda, un venerdì sera vide in televisione l'originale girato in un'America che, nel 1933, cercava di uscire dallo spettro della Depressione e nella quale, proprio pochi mesi prima, era stato inaugurato l'Empire State Building: il grattacielo sul quale King Kong, nella nuova morirà colpito a morte dai piccoli aerei ad elica dell'esercito. «Poco dopo decisi di girare una mia versione» ha raccontato il regista, oggi quarantaquattrenne. «Avevo sì e no undici anni, mi feci prestare da mia madre una vecchia pelliccia, tagliandola a pezzi e ricucendola sopra un modellino del gorilla in plastilina e fil di ferro. L'Empire State Building era stato ritagliato da un pezzo di cartone e il profilo di New York era stato disegnato su un lenzuolo. Ho tenuto quelle cose in uno scatolone, ma il film non lo finii mai».
Quando Jackson divenne famoso cercò di convincere la Universal a fargli girare il remake del leggendario gorilla, ma i produttori di Hollywood alzarono le spalle. Si dedicò al Signore degli anelli, ma non dimenticò il primo amore: «Non ho girato King Kong come un regista che si adatta a fare un remake, ma come un grandissimo fan». Un fan che aveva a disposizione uno studio neozelandese di nome Weta, che si è dedicato giorno e notte agli effetti speciali, studiando i minimi particolari antropologici, zoologici e psicologici dell'inesistente Isola dei teschi, sulla quale vive un gorillone alto dodici metri di centoventi anni, ultimo esemplare della sua specie che, rimasto orfano da cucciolo, si deve difendere dagli attacchi degli altri animali preistorici, dinosauri e enormi pipistrelli che abitano la notte. «Per questo l'ho voluto con una profonda cicatrice sull'occhio destro e con la mascella storta, spaccata da cucciolo in una lotta sanguinaria» ha spiegato Jackson.
Nel costume di Kong si nasconde l'attore inglese Andy Serkis (Gollum nel Signore degli Anelli, e che in questo film interpreta anche il cuoco di bordo), che per studiare il gorillone ha trascorso alcune settimane in Ruanda e allo zoo di Londra. Una volta entrato nella parte di Kong, alla faccia di Serkis sono stati applicati degli elettrodi collegati ad un computer, che ne ricreano le espressioni emotive e le adattavano al viso di un gorilla. «Richard Taylor aveva definito il vecchio Kong una creatura solitaria, psicotica e senza tetto» ha spiegato Serkis «ma per me ogni gorilla è diverso e Kong, forse, è più umano degli umani. Il mio Kong ha un cuore d'oro».
La pensa così anche Naomi Watts, la biondina di cui King Kong s'innamorà sull'isola maledetta. Lei, nei panni di una ballerina da vaudeville che accetta d'imbarcarsi quando non riesce a trovare lavoro nella Broadway della Depressione, è il primo essere che King Kong non schiaccia come un giocattolo. «È così solo» si accora la Watts: «Un gigante con un cuore e un'anima bellissima. Ho deciso di accettare la parte perché, rivedendo l'originale, mi sono resa conto che la vecchia storia già allora, pur con degli effetti speciali che oggi farebbero ridere, era bellissima e romantica. In questa versione di Jackson non c'è nessun velo di sensualità tra la bella e la bestia, ma solo un affetto e una solitudine profonda, per entrambi».
Con la Watts recitano anche Jack Black e Adrien Brody. Ma protagonista di questo kolossal è soprattutto New York: quella della Grande depressione, della Times Square delle prime insegne al neon, dell'Empire State Building che non temeva di vedersi sorpassare dalle Torri gemelle che non ci sono più. Una New York scomparsa che Jackson ha voluto in bianco e nero, per alcune scene, e che lo studio Weta ha ricostruito con grande tenacia e amore dei particolari.
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