John Cale, suoni maledetti di un ex Velvet Underground

Cosa resta dell’epopea colta e selvatica, sofisticata e rockettara dei Velvet Underground? Intanto resta John Cale, che del gruppo, caro a Andy Warhol e a milioni di giovani ribelli, fu l’anima musicale quanto Lou Reed ne incarnò il versante poetico. Oggi Cale coagula in Black acetate il suo complesso mondo espressivo, con i furori, le torbide atmosfere, l’intreccio di classicità e di provocazione che il presente legittima forse ancor più di quei fervidi anni Sessanta, dei quali i Velvet restituirono come altri mai il lato maudit, insomma la «wild side». E che qui si esplicita certamente nel piglio impulsivo dell’iniziale Outta the bag ma anche nel country sornione, stralunatissimo di For a ride, nei falsetti stravolti di Brotherman, nel garbo attossicato di Gravel drive, nel torvo incalzare del ritmo, a contrasto voluto col discorrere elegiaco della viola e con la raggelata solennità dei cori, in Satisfied.

Suoni distorti e fantasmatici, voci deturpate da tic tecnologici, atmosfere gotiche forniscono a questo album il suo scenario da incubo: cupo, fatto di assilli esistenziali e di sgomenti definitivi, di inferni metropolitani raccontati con straordinario senso pittorico.

John Cale Black acetate (Emi)

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