Joshua Ferris, tanto stress e poco talento

«Avevamo la grande fortuna e i difetti caratteriali tipici delle generazioni che non hanno fatto la guerra. Se avessimo vissuto l’esperienza di riprenderci dai postumi di una campagna pubblicitaria significativa, saremmo già stati contenti. Invece le nostre battaglie erano solo quelle per salire di un gradino nella gerarchia delle sedie». Lavorano in una grande agenzia pubblicitaria di Chicago, la bolla speculativa della New Economy fine anni Novanta è appena scoppiata e sono iniziati i licenziamenti e le crisi depressive. Carl, Joe, Karen, Marcia, Tom trascorrono quasi tutto il loro tempo in agenzia, e il lavoro avvolge e rappresenta tutta la loro vita. Sono i protagonisti del corale, malinconico e feroce E poi siamo arrivati alla fine di Joshua Ferris (Neri Pozza, pagine 398, euro 17), già salutato come un entusiasmante doppio debutto, quello di un nuovo interessante narratore americano e quello del volume scelto per inaugurare la nuova collana Bloom di Neri Pozza (che presenterà narrativa italiana e internazionale e titoli di saggistica, «nel tentativo di raccontare la contemporaneità attraverso i suoi spazi esemplari, i caratteri tipici, le rappresentazioni globali»).
Ma a parte l’inconsueta scelta stilistica per cui la storia è scritta in prima persona plurale, che del romanzo è l’aspetto più forte e originale, in realtà resta poco altro. Con l’incipit: «Eravamo irritabili e strapagati. Le nostre giornate non promettevano nulla», Ferris ci ha già detto tutto e ci ha fatto respirare in un attimo l’atmosfera carica di petulante insoddisfazione che aleggia sulla vita di ogni funzionario del nuovo millennio. «Vi state già annoiando? Noi ci annoiavamo tutti i giorni. La nostra noia era sempre in corso, una noia collettiva». Il resto del racconto è tutto stanze delle fotocopie, distributori di bevande, scrivanie, ascensori, popolati di colleghi che credono di conoscersi bene e che invece scoprono di avere molto da capire degli altri al di là delle infinite chiacchiere di cui riempiono le giornate. Non mancano colpi di scena ed eventi dolorosissimi, fra depressioni cliniche e violente, separazioni, la morte della bambina di una delle impiegate per mano di un crudele assassino, un chiacchierato e poi reale tumore al seno per la responsabile dell’agenzia, la donna in carriera un po’ datata che si è votata al lavoro al punto da non avere praticamente alcun tipo di vita al di fuori delle mura dell’ufficio. Ma la sorpresa è che da tutte queste storie, tristemente, passa molto poco e non si riesce a provare commozione per quasi nessuno.
Forse per scrivere un buon libro sul lavoro e per raccontare quanto esso sia diventato la vita intera di tante vite, non basta conoscere dall’interno le meccaniche quotidiane che governano la convivenza, la competizione e il successo in un mondo professionale dorato e stressante. Non basta ricercare complicità per le piccole miserie quotidiane e i rapporti di forza fra gli individui, perdendo fra l’altro l’occasione per ritrarre con un po’ più di profondità la natura del lavoro quotidiano di questi tempi, nonché il microcosmo delle agenzie pubblicitarie.

E non basta creare personaggi tutti un po’ al limite e tutti con vicissitudini pesanti a minarne la serenità, per portare l'epica tra i Fantozzi dell’era di google. Forse occorre quell’indefinibile talento di scrittore, così palpabile quando chi scrive riesce a far vibrare ogni pagina, talento di cui Ferris non sembra particolarmente dotato.

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