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A Katif i coloni rassegnati lasciano le case in silenzio

Anche David Tali, che perse la moglie e cinque figli in un agguato palestinese, si fa convincere ad abbandonare la colonia

A Katif i coloni rassegnati lasciano le case in silenzio

Gian Micalessin

da Katif

Loro se ne sono già andate. Più di un anno fa. David ha preso cinque sedie, le ha messe qui davanti, sulla veranda di casa. Su ognuna una candela. Su quella in mezzo il giubbotto verde catarifrangente di mamma Tali. Quando non curava i bambini era tra i volontari della colonia. Era il giubbotto delle emergenze, dei momenti difficili. Quella sera non l'aveva addosso. Quella sera David non c'era.
Adesso David è dentro. Da solo. Nella casa buia. Nella cucina vuota. Immensamente vuota. Qui davanti alla veranda, davanti alle cinque sedie ci sono militari, poliziotti, microfoni, telecamere. Ma nell'aria neanche un suono. È ora. Fra un po' qualcuno dovrà decidersi. Qualcuno dovrà dirglielo. Qualcuno dovrà spingere quella porta e parlargli. Ma chi?
Su quelle quattro sedie intorno al giubbotto di mamma Tali immagini i volti. I loro sorrisi. Hila, la più grandicella, aveva 11 anni. Hadar ne aveva nove, Roni 7, Meirav 2. E poi c'era lei, creatura senza nome da otto mesi nel pancione di Tali. Erano tutti assieme quella notte, con i giocattoli e i libri di scuola nell'auto di mamma. Era il due maggio di un anno fa e loro, le donne di casa Hatuel, tornavano a casa nella colonia di Katif. David aspettava da solo. Come oggi. Ma sulla strada, prima del cancello della colonia di Katif, prima di casa, prima di David c'era qualcun altro. Quattro occhi, due kalashnikov puntati qualche chilometro prima dell'insediamento. Mamma Hila guarda la strada, controlla le bimbe addormentate. Non immagina l'agguato, non vede i lampi nella notte. La colpiscono subito, la macchina sbanda, si gira su se stessa, si capovolge, semina giocattoli e bambole. Gli assassini palestinesi seguono quella scia di giochi. Scaricano due proiettili in ognuna di quelle testoline reclinate. Senza un sussulto di umanità. Senza un fremito di pietà. Quella sera un soldato si fece forza, andò a raccontarlo a David. Questa mattina un soldato deve ricordargli che è tempo di abbandonare i ricordi, di lasciare le memorie, di partire per sempre.
È il settimo giorno di ritiro. Il riposo dello shabbat è finito. C'è il lavoro da finire negli insediamenti di Eli Sinai, Nissanit e Dugit nel nord della Striscia di Gaza. Ma a Nissanit e Dugit sono già al lavoro anche i bulldozer. E anche a Peath Sadet si sta già demolendo. C'è qualche casa ancora da svuotare ad Atzmona nel sud. C'è tutto da fare a Slav e Katif. Oggi toccherà invece alle 60 famiglie della piccola, ma turbolenta colonia di Netzarim, nel centro della Striscia. Poi a Gaza resteranno solo case da distruggere. E già domani si potrà iniziare l'evacuazione di Kadim, Ganim, Sa Nur e Homes, i quattro insediamenti della Cisgiordania. Kadim e Ganim sono già stati abbandonati spontaneamente. Sa Nur e Homes sono diventati il centro di raccolta dell'estremismo di destra. Lì dentro si sono già radunati in più di mille, molti dei quali armati. L'ultima tappa dunque rischia di essere la più pericolosa.
A Gaza ieri soldati è poliziotti sono arrivati alle porte di Katif poco dopo le otto. Davanti c'e una barricata di copertoni in fiamme, una pira di tronchi infuocati. I soldati non si fermano nemmeno. Al settimo giorno è quasi routine. Vanno avanti i bulldozer, schiacciano le fiamme, travolgono la cancellata. Katif è vuota. Dietro quelle fiamme soltanto rassegnazione. I container sono pieni, le auto stracolme, gli armadi sgombrati, gli infissi smontati. Katif attende solo il rito dell'addio. David Hatuel un po' di rispetto. Entra un ufficiale, da solo. Poi un altro. Discorrono piano, parole sottili nella cucina vuota. Dieci, quindici minuti, escono. Se ci può esser un accordo sullo strazio è stato trovato. Lui aspetterà, andrà alla sinagoga reciterà l'ultima preghiera, potrà andarsene da solo per ultimo, quando tutti saranno già stati caricati sui pullman.
Oggi non ci sono urla, non ci sono grida, non ci sono drammi. Né qui, né ad Atzmona, più a sud, quasi al confine con l'Egitto. Là, davanti ai primi bulldozer, la piccola Yiska Harus, 11 anni soltanto, ha costruito un piccolo camposanto. Cinque pietre tombali e la scritta Cimitero degli Oppressori. Sulle steli i nomi di Hitler, dell'imperatore Tito distruttore del tempio, del grande faraone e di Yasser Arafat. La quinta tomba è senza nome. Yiska Harus ha una stella di David gialla appuntata al petto. Non dice per chi sia il sepolcro senza nome. Qualcuno sussurra Sharon. Lei sorride, ma non risponde.
A Katif alle 13 è il tempo dell'ultima funzione. Donne e uomini lasciano le case vuote, riempiono la sinagoga. Pregano per due lunghe, interminabili ore. Ripetono gli stessi salmi e le stesse canzoni. David li ha raggiunti. È con gli altri attorno al sacro rotolo della Torah. Guardano impietriti il cielo, pregano, ripetono lo stesso ritmico dondolio del corpo e della testa. Dopo due ore i rabbini tirano fuori la sacra Tora. È l'inizio della fine, l'ultima processione, l'addio alla sinagoga.
David torna a casa, tira dentro le cinque sedie, ci si siede dinanzi. Poi apre la porta, monta in macchina e se ne va. Da solo. Senza bagagli.

Chino sotto il peso dei ricordi.

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