Cultura e Spettacoli

Kennedy, Pericle e l’arma vincente della retorica

L’arte della parola dalle «Catilinarie» di Cicerone al celebre «Ask not» di J.F.K. e al sogno di Martin Luther King

Ci sono discorsi che hanno cambiato il corso della storia. O che hanno dato il senso di un’epoca, l’atmosfera di una stagione dell’umanità. Certo, a volte dietro la forza delle parole c’era la potenza delle armi, e nel suono della voce si sentiva l’eco delle cannoniere. Ma altre volte la retorica si nutriva di se stessa e creava suggestioni più forti persino di qualsiasi minaccia militare. Prendete il caso di J. F. Kennedy. Giovane, brillante, fascinoso, diventa il leader della più grande potenza mondiale. Il suo mito ha ormai qualcosa di stucchevole: il mondo, ancora oggi, pullula di kennediani più o meno abusivi (aveva ragione Roberto Benigni: non potete osare di dirvi kennediani se prima non avete fatto cose clamorose come portarvi a letto Marilyn Monroe). Eppure, quale che possa essere la sua eredità, quale che sia il giudizio storico su un presidente che (per esempio) ha cacciato l’America nel vicolo cieco del Vietnam, non c’è dubbio che Kennedy fosse un oratore al tempo stesso classico e spregiudicato. In un libro appena pubblicato dal Saggiatore (Ask not, euro 23) il giornalista e saggista Thurston Clarke ricostruisce minutamente, in 242 pagine, la genesi del discorso pronunciato da Kennedy il 20 gennaio 1961, al momento del suo insediamento alla Casa Bianca. Il discorso appunto del famoso «Ask not» («non chiedete»): «Non chiedete che cosa il vostro Paese può fare per voi, ma cosa voi potete fare per il vostro Paese». Un discorso brevissimo, una retorica semplice, a volte antica, che tira in ballo il profeta Isaia e la volontà di Dio, e pure lo «squillo della tromba» che chiama alla battaglia «contro la tirannide, la miseria, le malattie» e (con un guizzo a sorpresa) «contro la guerra stessa». Eppure un discorso di prodigioso fascino, di cui è rimasto un segno nella memoria collettiva, non solo degli americani. In quell’inverno del 1961 anche un cardinale, in una Milano fredda e grigia, ascoltava il discorso di Kennedy alla radio. E ammirava quella «eloquenza vigorosa, classica e sacra». Due anni dopo il cardinale sarebbe diventato papa con il nome di Paolo VI.
La moglie Jacqueline era ovviamente di parte, e forse un tantino esagerata, quando defini il discorso di insediamento di Kennedy «bello e sublime», «uno dei più commoventi che siano mai stati pronunciati», degno di essere ricordato negli annali della storia umana «accanto all’orazione funebre di Pericle». Ma anche il New Yorker scrisse che «sarebbe stato difficile credere che un cittadino ateniese o romano avrebbe potuto ascoltarlo senza esserne profondamente toccato». Alle spalle di Kennedy la propaganda disegnava insomma l’ombra dei grandi oratori dell’antichità. Lo stesso palco da cui il presidente parlava ricordava un tempio greco, con un tetto piatto sorretto da otto colonne corinzie. Washington come Atene, insomma. Ed è certo che, come appunto nell’orazione di Pericle per i caduti nella guerra contro Sparta (anno 431 a. C.) riportata da Tucidide, le parole di Kennedy servivano innanzitutto a delineare il ritratto ideale di una nazione. A creare un mito, quello dell’America kennediana, della new generation chiamata a conciliare forza e saggezza. Non diversamente Pericle aveva forgiato il mito di Atene «scuola della Grecia», amante al tempo stesso delle bellezza e del coraggio, fucina di libertà e di eguaglianza, nemica dell’oppressione e della miseria. Atene, alla fine, perse la sua guerra. Ma quel mito, largamente fittizio, è sopravvissuto, fino a riflettersi nella retorica della democrazia occidentale in genere e statunitense in specie. Lo stesso Kennedy aveva già parafrasato Pericle in campagna elettorale, nel Massachusetts, sovrapponendo ancora una volta americani e ateniesi: «Noi non imitiamo nessuno, perché siamo un modello per gli altri».
A volte i discorsi dei leader fanno prendere alla storia un corso diverso. Il tanto bistrattato Cicerone realizzò, con le sue Catilinarie, un capolavoro non solo retorico ma anche politico: l’attacco diretto e immediato a Catilina («Quousque tandem, Catilina») mise all’angolo l’avversario e in imbarazzo chi, come Giulio Cesare, era segretamente vicino alla congiura. Viceversa, l’istrionica commemorazione di Marco Antonio al funerale dello stesso Cesare fu decisiva nel vanificare gli effetti di un’altra congiura, quella dei cesaricidi. Altre volte un discorso resta come un testamento di idee che continuano a camminare dopo la morte di chi le ha evocate. Come il famoso sogno di Martin Luther King il 28 agosto 1963, cinque anni prima di finire ammazzato, al Lincoln Memorial di Washington.
E I have a dream si intitola appunto un’antologia di celebri discorsi del Novecento appena pubblicata in tascabile da Rizzoli (pagg. 174, euro 5). Raccoglie discorsi di papi e presidenti, agitatori di folle e intellettuali: da Gandhi a Mandela, da Che Guevara a Sadat, da D’Annunzio a Giovanni Paolo II (con il discorso pronunciato nel 1986 alla Sinagoga di Roma davanti ai «fratelli maggiori» ebrei). Qui si trova un altro celebre pezzo oratorio di Kennedy, quello pronunciato il 26 giugno 1963 nella Berlino divisa dal Muro. Anche questo scandito da uno slogan semplice e ripetuto: «Ich bin ein Berliner», «io sono un berlinese». Il libro, scrive il curatore David Bidussa, è una raccolta di «sogni politici». In molti casi si tratta di sogni falliti: fa un certo effetto rileggere oggi, con un occhio a quello che succede in Medio Oriente, la bellissima e coraggiosa dichiarazione di Yitzhak Rabin dopo la firma degli accordi di pace con Arafat, a Washington. Ma ha forse ragione Bidussa quando segnala che la capacità di proporre sogni è spesso un indice di realismo politico: nasce dall’intuizione di un malessere unita alla consapevolezza che il nostro presente non è immutabile, che nessun processo storico è irreversibile. La parole sono l’essenza della politica, ne plasmano il senso e la profondità.

Lasciamo al lettore decidere se siano tempi migliori o peggiori quelli in cui al massimo si chiedono «meno tasse per tutti» o si invoca «un paese normale».

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