La kermesse

Roma«Manca solo Romano Prodi e poi ci sono tutti», motteggia un dirigente socialista. E in effetti ci sono quasi tutti, i protagonisti delle passate stagioni dell’Unione: Bertinotti e l’ex ministro Berlinguer; D’Alema e Veltroni; Franceschini e Cossutta; Castagnetti e Diliberto, e naturalmente Tonino Di Pietro. Assenti solo Mastella, nel frattempo passato al centrodestra, e Rutelli, che ha rifiutato di aderire alla manifestazione.
Sul palco si alternano i leader dei vari partiti con musicisti e voci della «società civile» (un’operaia cassintegrata, un’insegnante precaria, una rappresentante del popolo viola). E nessuna cita l’Innominato, neppure Di Pietro, che ci gira attorno per tutto il suo intervento spiegando che oggi bisogna parlare «solo del piduista Berlusconi e di nessun altro», altrimenti c’è il rischio che «le nostre parole vengano strumentalizzate». Anche se, minaccia, dopo le elezioni si faranno i conti: «Prima o poi arriverà il momento di riflettere su quel che è accaduto» e - sottinteso - su quella fatidica firma sotto il decreto salvaliste. Solo il socialista Riccardo Nencini rompe il tabù, come aveva anticipato a Bersani («E infatti - si lamentano dal suo staff - la tv del Pd, Youdem, ha censurato il suo intervento») e difende a spada tratta il presidente Napolitano: «Basta sparare sul capo dello Stato, non possiamo pretendere che sia partigiano», grida al microfono. La piazza si divide tra applausi e fischi.
Applaudono i disciplinati militanti Pd, fischiano dipietristi e «viola», che reggono striscioni e cartelli anti-Quirinale: «Vendesi Repubblica, rivolgersi Napolitano». Tonino si dissocia: «Chiedete a loro, io non c’entro», risponde a chi gli chiede un commento. Le bandiere Pd sono in netta maggioranza: la regia del partito bersaniano c’è e si vede, nel colpo d’occhio offerto alle tv. Che serve a ricordare all’elettorato catodico su quale simbolo mettere la croce.
Va in scena ovviamente la consueta guerra delle cifre: gli organizzatori annunciano trionfali che «siamo duecentomila», la Questura li decima a ventimila. La piazza è piena, ma certo non fitta: un testimone al di sopra dei sospetti come il vice-capogruppo Pd Nicola Latorre calcola a occhio: «Saranno almeno 40mila». Lui era tra quelli che avevano sconsigliato il segretario di inseguire in piazza l’ex pm: «Ma alla fine aveva ragione Bersani - ammette mentre torna in Puglia dopo la capatina a Piazza del Popolo - poteva diventare una manifestazione tutta contro di noi e contro Napolitano, in piena campagna elettorale. E invece abbiamo neutralizzato Di Pietro e i “viola” e schivato il rischio».
Apre la candidata del Lazio Bonino, in giacchetta gialla e occhiali da sole, che annuncia alle elezioni regionali la «riscossa democratica e civile», cita Gandhi e Anna Politovskaja e attacca il «regime da basso impero» di Berlusconi. Ed è un boato di «Emma-Emma»: solo il segretario Pd Bersani (sobria giacca e cravatta e non un accenno di viola) e l’immaginifico Nichi Vendola (in total black con sciarpa viola scura) raccolgono altrettanti applausi. Di Pietro si rifà rinfacciando agli alleati di aver dovuto calare le braghe e seguirlo in piazza: «Noi ci siamo questa volta e c’eravamo anche prima, fin dall’inizio della legislatura. Quando altri del centrosinistra ci accusavano di essere eversivi e visionari, e ora devono darci ragione». Quegli stessi che hanno pensato di poter trattare e dialogare con il «novello Nerone», ossia Silvio Berlusconi, e che per questo meriterebbero di essere processati per «concorso di colpa grave»: hanno «pensato di giocare col fuoco finendo per bruciarsi le mani». «Sarebbe bene - tuona l’ex pm cercando forse tra la folla i baffi di D’Alema - che i responsabili di quell’omissione venissero qui a chiedere scusa».
Bersani comunque mantiene la linea del muro di gomma con lo smanioso ma necessario alleato: «Non ho mai avuto dubbi che avrebbe rispettato i patti», e evitato di attaccare Napolitano, commenta serafico sorvolando sugli attacchi al Pd. Tocca a lui concludere e infondere speranza nel suo popolo: Berlusconi e le sue «bolle di sapone» non sono più «il futuro»: il premier «è ancora troppo forte per essere finito ma già troppo finito per essere davvero forte».

E quindi bisogna «guardare avanti» e sperare che un domani «le cose cambino». Poi lascia il microfono a uno scatenato Simone Cristicchi che invoca Carla Bruni e «Sarko-sì e Sarko-no», mentre in piazza si arrotolano bandiere e si balla.

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