Kierkegaard e Kafka, la «logica» della solitudine

L’affettività, a volte, è intesa come pericolo, ostacolo a quel dialogo dell’anima con se stessa dove, secondo alcuni, sta la felicità vera e non condivisibile. O come antieros, copia deviante del desiderio che mira a congiunzioni più alte con verità, idee, Dio stesso. E allora, molte storie d’amore mondano andranno interpretate quali variazioni d’una vicenda fondamentale che culmina nella rinuncia.
Ve ne sono di emblematiche, alcune ben ricostruite nel libro di Marco Vozza A debita distanza. Per esempio quella di Kierkegaard. Notoriamente, per il pensatore danese tra finito e infinito c’è una distanza abissale. L’uomo religioso può appassionarsi radicalmente per Dio, investirlo con tutto se stesso, trasformarsi e vivere fino alla morte la tensione per un telos inarrivabile. Ma, richiedendosi qui una passione assoluta ed esclusiva, ogni interesse ulteriore «estetico» diventa vano. Caricaturale è, allora, l’uomo o il cristiano quando si consegna a Dio mediandone la distanza attraverso certezze parziali. Perché si atteggia verso il finito scambiandolo per l’infinito. E si ritrova a essere l’immagine comica del credente autentico che, al contrario, resta privo di garanzie, soffre nella paradossale fede per una beatitudine eterna «determinata dall’incertezza». E che, proprio per non far degenerare la vita in caricatura, si inibisce ogni strada che tenta di arrivare a Dio stando nel terreno della finitezza: istituzioni, vite esemplari, simboli. E si inibisce anche il matrimonio, inteso come legame sanzionato in cielo e in terra.
Coerentemente, Kierkegaard abbandona la fidanzata. Ma in questa antitesi tra amore e fede non c’è né ascetismo né misoginia. Solo la consapevolezza che l’esistere, quando si rivolge all’incondizionato, non può più trattenersi nelle possibilità del mondo, deve saltare oltre. Kafka aveva letto Kierkegaard e lo sentiva vicino. Così, la vicenda del doppio fidanzamento con Felice Bauer è, in fondo, la teatralizzazione grottesca delle tribolazioni d’una soggettività che avverte l’appagamento nella castità, nel gesto di istituire una distanza preventiva con il mondo. Forse, il modello di una simile soggettività fu Kleist, che credette di ottenere l’apice del controllo sull’esistenza frapponendo una distanza totale e anticipando, attraverso il suicidio, ogni attesa, ogni incertezza della fine. Fu un suicidio congiunto, compiuto insieme a una malata incurabile, in una sorta di condivisione assoluta di vite da abbandonare.

E qui il lettore si porrà, forse, una domanda: la «debita distanza» che queste figure hanno interposto tra sé e le donne non era la precognizione della mancanza costitutiva che ogni oggetto del desiderio porta in sé? E la mossa dell’abbandono non segnala una coscienza che avverte quanto ogni spinta erotica tende verso immagini, fantasmi, corpi sostitutivi, proiezioni di qualcosa che non esiste, non c’è mai stato? Per alcuni, è proprio così.

Marco Vozza, A debita distanza (Diabasis, pagg. 182, euro 16).

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