Cultura e Spettacoli

KOUNELLIS Viaggio nel dolore

A Milano la personale dell’artista, di origine greca, nell’ex spazio industriale della Fondazione Arnaldo Pomodoro: un’esplorazione all’interno dell’anima

Lo spazio della Fondazione Pomodoro a Milano è molto grande, una vecchia fabbrica restaurata dove resta ben visibile l’impianto industriale. Qui Jannis Kounellis, l’artista greco di nascita e italiano d’adozione (vive in Italia dal 1957) ha aperto l’ultima sua grande personale (fino all’11 febbraio). Il regista Ermanno Olmi ha «spiato» e filmato tutta la costruzione della mostra, che è anche un sottile omaggio a Milano. In questo contesto il centro deve essere non occupato, ma polarizzato. È quanto l’artista ottiene con la collocazione di un labirinto, disposto al centro dinamicamente, secondo una leggera sfasatura. All’interno si verificano alcune apparizioni: una porta murata, un lettino, una stanza dove nel pavimento sono inserite campane... «È come un pozzo - dice l’artista - vi si depositano sensazioni, emozioni e sempre ricordi. Le campane di solito sono in alto per richiamare, ma sono forme che hanno comunque la memoria del suono. Il fatto che siano sotterranee e volutamente impedite a suonare aumenta il loro valore espressivo».
Nella struttura industriale ci sono ponti sospesi: il labirinto è posto sotto il secondo, sopra il primo un pianoforte poggia su lamiere e un pianista esegue Va’ pensiero dal Nabucco di Verdi. Più avanti a destra le vele arancio della Biennale di Venezia del ’93 introducono il tema del viaggio e un tocco di leggerezza: tutto è onirico. Il labirinto è una proposta costante nell’opera di Kounellis, anche se cambiano gli elementi interni. Poi gli stessi elementi si chiudono a quadrato, formando l’opposto del labirinto, una struttura simile alla cella di un tempio, sulle cui pareti esterne, di lamiera, appaiono brani di carne. Otto altissime colonne salgono verso il soffitto circondate da una spirale che le spinge ad avvitarsi verso l’alto e riporta alla Città che sale di Boccioni.
«La verticalità - dice Kounellis - è l’inizio della positività, ci permette di leggere il mondo. Ti dà l’unicità. La nostra cultura pittorica, qui in Italia, è fatta di unicità. La verticalità porta con sé una cosa dimenticata: l’emotività, il dramma come prospettiva, inizio di cambiamenti. Non si può togliere il dramma dalla nostra cultura. Tutte le volte che il dramma si afferma c’è una positività, anche nel cinema, con il neorealismo».
Pensa a Rossellini, a De Sica, ai primi film di Pasolini?
«Non solamente a loro: Pasolini non avrebbe potuto fare il suo cinema sulle periferie se non ci fossero state prima le periferie di Sironi».
È interessante vedere il tipo di pittura che Sironi usa nelle periferie: densa, fatta di paste grasse, è quasi come se usasse già materie come il carbone, il piombo.
«Sì, è un fenomeno italiano. Sempre, nelle discussioni e negli affetti, il paese rimane la parte centrale. Ci sono tendenze, formalizzazioni che cambiano, però gli affetti sono permanenti. Anche nel futurismo, per esempio in Boccioni. Tutta l’esperienza formale di Boccioni viene depositata nella figura della madre. È evidente che l’idea così ossessiva della madre rappresenta anche la maternità come lingua e cultura. Questa è la particolarità italiana, anche nella pittura di Burri. C’è una specie di contratto non scritto tra il pittore italiano e il suo paese».
Una volta lei disse: «non esistono i giovani artisti, se uno è un grande artista lo è anche a dodici anni».
«Certo. Heiner Müller, un grande autore teatrale tedesco con il quale ho lavorato, diceva che il futuro sono i morti. Il futuro sono i morti perché lì c’è il mistero dell’identità, c’è questa arteria sotterranea che ci dà l’immagine come di un lago, ma un lago emorragico».
Quando sono stati raccolti i suoi scritti da Sellerio ha voluto dargli il titolo di Odissea lagunare.
«L’odissea è lagunare perché non ci sono tempeste e comunque è come viaggiare all’interno di una ferita e questo è molto doloroso. È un labirinto, un’identità occidentale, però è anche una chiusura: ha un’entrata, ma è anche l’unica uscita. Ti costringe a un percorso, ma segretamente sai che questa è l’unica realtà. Se non consideri questa condizione di fondo, non arriverai mai a liberarti».
Un’odissea all’interno di un lago potrebbe sembrare rassicurante, invece lei la considera più dolorosa perché il viaggio è dentro una ferita.
«È una grandissima ferita: pensiamo alle possibilità immaginarie e linguistiche che ha aperto l’Odissea, ma ridotta in questa ferita senza spazi, in cui pur sempre, hai un orizzonte che devi leggere diversamente. È una ferita anche quella che indica Caravaggio, che mette il dito nella piaga del costato di Cristo. Toccare una parte che è dolente, per credere, fa parte del nostro modo di vivere la condizione artistica. Purtroppo ci sono quelli che non vogliono pensarci. Bisogna capire le periferie di Sironi, bisogna ragionarci sopra. Nelle periferie trovi questo orizzonte drammatico, che comprende tutto, ma non ti permette di sfuggire.

È come essere un condannato a morte e sapere che la fuga è impossibile».

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