Cultura e Spettacoli

Kristof, la sposa bambina della poesia

«Un libro, pur triste che sia, non sarà mai triste come la vita»: questa la frase che, più di ogni altra, racchiude la dolorosa poetica di Agota Kristof, la scrittrice ungherese che ha firmato capolavori riconosciuti come Ieri e Trilogia della città di K. (editi in Italia da Einaudi). Definirla scrittrice è limitante: Agota Kristof - nata nel 1935 a Csikvand, Ungheria, ma fuggita giovanissima a Neuchâtel per sottrarsi alla dittatura sovietica - è una poetessa della parola in prosa. Tutti i suoi scritti non sono segni, ma lividi. È una telegrafista del dolore: non lascia spazio all’immaginazione, la crocifigge. Crocifigge una realtà che vive ma che ha imparato a odiare: non scrive proclami contro le guerre nel mondo o la fame in Africa, ma contro quelle piccole, repellenti e misere ipocrisie che fanno il nostro quotidiano e che ci ostiniamo a chiamare vita.
Tutto viene smascherato, dalla Kristof: i falsi sorrisi, le convenzioni sociali, il sentire popolare, il sentirsi individui capaci di andare oltre una sofferenza che dovrebbe strapparci la pelle ogni volta che apriamo gli occhi. Li chiudiamo, non solo nel sonno. È di questo che scrive la Kristof. Anzi, scriveva. Come mi ha confessato nel settembre 2006, in una rarissima e sua ultima intervista in Italia (pubblicata su queste pagine), non ha più intenzione di scrivere. Malata di cancro, lei che ha sempre combattuto la sua battaglia da esule della vita attraverso la scrittura, davanti al dolore fisico ha deciso di cedere, di ritirarsi. Ha deciso che «davanti alla malattia non c’è parola in grado di raccontare la verità». Vive ancora a Neuchâtel, la sua sfida non l’ha ancora vinta, ma purtroppo la promessa l’ha mantenuta.
A raccontarcelo sono un libro e un documentario: Continente K. Agota Kristof scrittrice d’Europa (in uscita per Casagrande, euro 22). Un film di 55 minuti, girato dal regista e giornalista Eric Bergkraut, che ha per protagonista, come attrice principale, la stessa Kristof. Nel film, di grande qualità, la scrittrice ci porta nei suoi luoghi oscuri, nella città ungherese della sua infanzia, tra le macerie morali di un mondo che sembra non riconoscere più. Alla realtà si alternano nel film frammenti di letture (in ungherese, lei che ha sempre prediletto il francese), scene di finzioni ispirate ai suoi romanzi, riprese teatrali dai tanti testi che la Kristof ha dedicato al palcoscenico di carta. Nel libro, un’intervista inedita in Italia e una sua poesia mai pubblicata (che qui proponiamo).
La Kristof, infatti, nasce come poetessa, ma non ha mai voluto mandare alle stampe i suoi versi, che scrive solo in ungherese. «Mi vergogno», confessa candidamente non sapendo, forse, di citare una frase geniale di Kafka: «Ogni vero poeta dovrebbe arrossire per ogni suo verso». E in tempi di poeti della porta accanto - in Italia ci sono più poeti che impiegati statali - la sua ritrosia fa già intuire la sua grandezza. Ad Erica Durante, ricercatrice in Letterature comparate a Parigi, che l’ha intervistata, la scrittrice mette a nudo il proprio cuore. Ribadisce, come ci aveva confidato nell’intervista in esclusiva, la sua intenzione di non scrivere più e non solo: «Ho donato tutto all’Archivio Svizzero di Letteratura di Berna: lettere, testi, romanzi, libri della mia biblioteca, la macchina da scrivere, il dizionario ungherese-francese». Unica carta a rimanere in casa è quella su cui, da anni, sta scrivendo Aglàe dans le champs, il romanzo che non vuole pubblicare: «Ce l’ho ancora qui, a casa; non l’ho dato all’Archivio, ma non è finito. L’ho iniziato in diversi quaderni: ho scritto abbastanza ma sempre la stessa scena. Ogni volta scrivo la stessa cosa».
Viene in mente il protagonista di Shining di Stephen King (nel film omonimo di Stanley Kubrick è Jack Nicholson), il quale, rifugiatosi in un’immensa stanza del grande albergo di montagna, batte a macchina ossessivamente sempre la stessa frase. Avvertiamo gli stessi brividi.
Ma di cosa vorrebbe parlare il libro? «Vorrei raccontare la storia di una bambina innamoratissima dell’amico di suo padre, il pastore del paese. E questa è una storia vera. Voglio dire che il pastore è stato il mio primo amore: era il miglior amico di mio padre. C’erano due intellettuali nel paese: il maestro e il pastore. All’epoca non era ancora sposato ed io ero innamorata di lui, avevo sei anni. Mi voleva molto bene e mi diceva sempre che quando sarei stata grande mi avrebbe sposata. Ci siamo rivisti quando avevo quarant’anni ritrovando il nostro amore, ma lui è morto pochi mesi dopo». La Kristof procede a briglia sciolta: confessa che L’analfabeta, racconto autobiografico pubblicato in Italia sempre da Casagrande e molto incensato dai critici, «non è letteratura ma giornalismo da quattro soldi». Del film tratto dal suo romanzo capolavoro Ieri, firmato da Silvio Soldini con il titolo Brucio nel vento, non ha una grande considerazione: «Il film è pessimo. Il regista ha optato per un happy end, perché è quello che piace alla gente. Eppure ne avevamo parlato per ore, qui a casa mia».
La Kristof ripercorre poi il suo amore di sempre: il teatro. Autrice di drammi rappresentati in tutto il mondo (i testi sono pubblicati in Italia da Einaudi) il suo è un amore viscerale. Come quello per la poesia: versi inediti contro «la menzogna dei sentimenti». Ne parla poco, come dovrebbero fare i veri poeti. E all’ultima domanda «Vuole che le spedisca l’intervista?» risponde come solo lei può: «Molto volentieri, la leggerò e la invierò all’Archivio».

Forse non è un happy end, ma chissà.

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