Cultura e Spettacoli

L’abbaglio di un viaggio nell’infanzia

Dalle emozioni profonde, H.B. si era sempre tenuto lontano. Aveva provato, sì, un amore giovanile e dolore per la morte dei genitori. Ma, in generale, diffidava dei sentimenti eccessivi.
Non svelo nulla di sconveniente dicendo che dietro la sua prudenza c’era la comune paura di venire a contatto con l’ignoto dentro di sé. Tuttavia H.B. - che nel momento in cui lo conosciamo era un affermato avvocato cinquantenne - aveva un buco dell’anima che risaliva all’infanzia. Un’epoca in cui purtroppo, come ripeteva spesso, non era ancora padrone della sua vita che altri decidevano per lui.
Aveva dieci anni quando i genitori lasciarono la città europea dove era nato per stabilirsi in Argentina. In quattro e quattr’otto, H.B. si ritrovò, non interpellato, dall’altra parte del mondo. Un ghiribizzo del padre dettato da spirito di avventura. Il suo vecchio era fatto così. Instabile e molto capace, si era conquistato una grossa posizione in patria, ne ebbe una anche migliore a Buenos Aires, finché, già anziano, abbandonò la famiglia per il Nord America. Fece altri soldi e in punto di morte lasciò tutto a loro, nemmeno con l’intenzione di farsi perdonare, ma perché aveva continuato ad amarli nonostante l’irrequietezza.
«Non ce ne sono stati due come tuo padre», ripeteva spesso la madre rimasta vedova. H.B. non seppe mai se fosse una lode o un ripudio. Sta di fatto che la donna si ingegnò perché, almeno in famiglia, il marito restasse un unicum e educò il figlio a non somigliargli affatto. Il giovane crebbe senza grilli per la testa. Non si sposò, ebbe rare amanti, non volle discendenti, si illustrò nel Foro.
Il tarlo cominciò a roderlo dopo la morte della mamma. H.B. scoprì che il trauma per l’abbandono della città natale era rimasto intatto negli anni. Col tempo, la nostalgia per la sua infanzia europea si fece prepotente. Decise quindi di liberarsi dall’angoscia tornando almeno un giorno là da dove era venuto. Afferrò l’indispensabile e salì sull’aereo, ignaro di ciò che lo aspettava.
Bruxelles era diventata una megalopoli, assediata dai grattacieli delle istituzioni Ue e dai vitrei palazzi delle delegazioni internazionali. La larghezza dei viali era triplicata e nuove strade intersecavano le vecchie. I sobborghi, quelli valloni e quelli fiamminghi, un tempo nel verde della campagna, erano stati raggiunti dalle nuove costruzioni e integrati nella City.
Vedendo dall’alto la ragnatela di cemento e bitume, H.B. fu preso dal panico. Presentì che nulla era come prima e cominciò a temere di non potere rintracciare i luoghi dell’infanzia.
Conosceva il nome dell’Allée dove aveva vissuto ma non aveva veri ricordi. Solo immagini disarticolate. La facciata art nouveau della sua palazzina, il giardino con gli albicocchi del vicino, le betulle del viale, le villette, la fontanella. Oltre agli amici del cuore, Denis e Pierre, che abitavano nello stesso condominio e di cui non sapeva più nulla. Un ricordo nitido, questo, ma - pensò con un sorriso tirato - inutile. Anche se fosse inciampato su uno dei due non lo avrebbe distinto da qualsiasi altro cinquantenne di Bruxelles. Ma via, che pensiero assurdo: dopo quarant’anni chissà dove saranno finiti.
Quando il Boeing si fermò, H.B. era già pentito di essersi mosso da Buenos Aires. Non era da lui dare retta a un impulso vago e, come sempre quando ci sono di mezzo i sentimenti, foriero di pasticci.
Il taxista era un pachistano col turbante. Se ne accorse già dentro la vettura e solo una solida educazione di rispetto del prossimo, specie se esotico, gli impedì di dire, «scusi, ho sbagliato», e saltare giù. Però pensava: «Con questo, quando mai troverò la strada?» e gli venne il dubbio che la strada stessa potesse essere scomparsa, inghiottita dalla metamorfosi della città.
Titubante ne disse il nome, J. van W - era quello di un condottiero belga - e aggiunse: Sint Gills. Lo fece con pronuncia piana e non gutturale per renderlo comprensibile all’autista straniero. Il fachiro ripeté J. van W. con perfetto accento brussellese e sorridendo disse: «Tra un quarto d’ora ci siamo, monsieur». Un quarto d’ora? Fantastico. Il suo pessimismo svanì e si distese eccitato sul sedile della Peugeot 607.
Lungo il tragitto non riconobbe nulla. E ancora nulla quando il tassista si fermò all’inizio di un viale. «Voilà», disse allegro il pachistano. H.B. scese, lasciò una discreta mancia, e osservò il taxi ripartire. Poi, col borsone da viaggio in mano, si guardò attorno spaesato.
L’Allée non gli diceva niente. Il dubbio già si riaffacciava quando, voltandosi, vide accanto a sé la fontanella. Identica a come la ricordava, con gli inconfondibili ghirigori liberty fusi nella ghisa. Ebbe uno spasmo che non provava da decenni. Euforico, felice, commosso, non sapeva neanche lui, cominciò a camminare all’ombra delle betulle. Le «sue» betulle, debitamente cresciute. E poi le villette con i giardinetti curati, eguali a come le aveva lasciate. A ogni passo, gli veniva incontro qualcosa di familiare. Non ricordava però la fontana con lo zampillo, ma sarà stata costruita dopo. Più che naturale qualche cambiamento. Ecco invece la villa che lo aveva sempre colpito col cornicione sporgente e il timpano bianco. La panchina sul marciapiede, non più in legno ma in lega leggera, l’isolato con i negozi, perfino il cinematografo. Tutto come allora. I ricordi tumultuavano come pietre trascinate da un torrente di montagna. Dio! La casa del vicino con gli albicocchi. Anche se, a guardare bene, erano susini. No, in mezzo c’erano anche gli albicocchi! È lei, è lei, nessun dubbio. La superò di corsa e giunse davanti alla palazzina dell’infanzia. La facciata art nouveau, indimenticabile, i fregi nello stile di Van de Velde, i bow window geometrici. Tutto corrispondeva. La meta era raggiunta.
H.B. si appoggiò barcollando a un muretto. Nello stesso istante, un uomo gli passò davanti e riconobbe Denis. La magrezza dell’adolescente era diventata ieraticità nel cinquantenne che lo sfiorava. H.B. sentì fisicamente il passato che gli cadeva addosso. Non fece un gesto per fermare l’amico. Nemmeno avrebbe potuto, dovendo badare a sé, sull’orlo del crollo nervoso. Mentre Denis si allontanava, H.B si sedette sul marciapiede, si lasciò andare e pianse.
Fu così che lo vide da lontano il taxista pachistano tornato indietro di gran carriera per una ragione precisa. «Monsieur, monsieur», gridò trafelato, affrettando il passo.
I pochi secondi che gli sono necessari per raggiungerlo mi danno il tempo di ragguagliarvi su una stranezza della Grande Bruxelles che negli anni ha inglobato i sobborghi. Ciascuno di questi sobborghi aveva tradizionalmente una strada intitolata al condottiero belga, l’equivalente di Garibaldi in Italia. Diventando un tutt’uno con essi, la metropoli ha oggi più strade con lo stesso nome.
Giunto davanti a H.B., il pachistano ripeté con affanno: «Monsieur, monsieur» e gli spiegò mortificato di averlo condotto a J. van W. di Charleroi anziché nell’omonima J. van W. di Sint Gills come richiesto. Un errore imperdonabile e tuttavia possibile in una città complicata come Bruxelles. «En tout cas, Monsieur, non è questa la via che cercava», aggiunse, mentre H.B lo guardava inebetito, il volto rigato dalle lacrime che stava versando per la commozione di avere ritrovato i luoghi dell’infanzia. «Ora però la prego di essere mio ospite - proseguì solenne l’orientale -. Sarò lieto di portarla in J. van W. di Sint Gills a tassametro spento».
Dunque, un equivoco. Un caso beffardo.
H.B. non era dotato di abbastanza ironia per sorridere alla bizzarra rivelazione. Ebbe però sufficiente saggezza per fare questo ragionamento: il brivido del ritorno all’infanzia, l’ho avuto; ho pianto di fronte alla casa sbagliata ma ho ritrovato il bambino che era in me; la mia emozione è consumata e se ora vedessi la casa vera non potrei più riviverla. Si asciugò quindi le lacrime e concluse tra sé: «Missione compiuta».


Poi, chiese al pachistano di riportarlo all’aeroporto in tempo per il volo di ritorno.

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