Politica

L’addio di Craxi: «Mi hanno condannato a morte»

EMOZIONI «È difficile che io senta l’amarezza, più facile che venga preso dall’autocritica»

«Questa non è una sconfitta politica. È una forma di rogo. Io sono condannato all’ergastolo, ho una pena a vita, perché a una certa età un carico di questo tipo equivale all’ergastolo, la mia libertà equivale alla mia vita, nessuno mi può toccare, se mi tocca io muoio». Una pausa più lunga, tra parole scandite così lentamente che sembrano dettate a un bambino. «Sono condannato all’ergastolo e a morte, punto e basta».
La registrazione ha i colori troppo accesi e le immagini un po’ sgranate dei filmini delle vacanze. In basso, la lucina rossa lampeggiante e la scritta «rec» confermano che la videocamera amatoriale sta registrando. Anche se quelle immagini non verranno mai trasmesse in pubblico, per oltre un decennio. Anche se quelle immagini non raccontano settimane di vacanza ma anni di latitanza, secondo il tribunale, o di esilio, come ripete lui ogni volta che trova qualcuno disposto ancora ad ascoltarlo. Bettino Craxi ha 63 anni e già una grave forma di diabete, in quel 1997 ad Hammamet. Vive in Tunisia dalla primavera di tre anni prima e ci resterà fino alla morte, il 19 gennaio del 2000.
Ieri pomeriggio, 3 gennaio 2010, nel programma In 1/2 ora su Raitre, Lucia Annunziata ha trasmesso alcuni passaggi di questa intervista inedita. Seduti davanti alla tv ci saranno stati alcuni dei molti che la sera del 30 aprile del 1993 davanti all’hotel Raphael gli gettarono addosso una pioggia di monetine. Sicuramente c’erano migliaia e migliaia di ex elettori, iscritti, tifosi del Partito socialista. O meglio del «Psi di Craxi». Chi l’ha amato, chi l’ha odiato, e soprattutto chi l’ha prima amato e poi odiato per preferire infine dimenticarlo. Tutti si sono trovati di fronte a un Craxi lontano dall’iconografia ufficiale. Rispetto ai fastosi congressi di «nani e ballerine» (ma oggi diremmo soltanto: «all’americana») sembra passata un’era geologica. In quel volto, in quella voce non c’è nulla degli orgogliosi trionfi degli anni Ottanta, e nulla dell’orgogliosa rabbia dell’ultimo discorso alla Camera, quando invitò ad alzarsi in piedi i deputati che non sapevano del finanziamento illecito ai partiti. E nessuno si alzò.
Ad Hammamet, davanti alla videocamera, Craxi torna su quegli istanti, e sui quei volti. «Vedo dei comunisti che parlano come se il comunismo non ci fosse mai stato, come se non vi avessero partecipato. Io, verso questo tipo di compagni che si camuffano ho un senso di disprezzo. Si può cambiare e correggere, senza per questo il bisogno di diventare prigionieri della menzogna». I comunisti, certo. Gli avversari di sempre. Ma i «compagni socialisti»? «La gran parte di loro mi ha voltato le spalle: se la parola traditori ha senso in tempo di pace, allora una parte di loro sono dei traditori. Altri, invece, hanno solo paura o sono alla ricerca di un loro ruolo». Il leader malato poi si ferma su alcune foto: Oscar Luigi Scalfaro presidente della Repubblica e poi animatore dei girotondi; Mino Martinazzoli ultimo segretario della Dc e fondatore di quel Ppi che diventerà poi Margherita e infine parte del Pd; Ottaviano Del Turco ultimo segretario del Psi destinato un quindicennio più tardi a una strana sorta di nemesi. «Ci sono dei becchini, ma non sono molto importanti - dice Craxi scuotendo la testa -. Sono gli affossatori dei loro partiti, hanno contribuito potentemente all’affossamento dei loro partiti e alla loro liquidazione».
La lucina rossa continua a lampeggiare mentre Craxi racconta un altro tradimento, quello di Lionel Jospin. Quando la malattia del vecchio leader italiano si aggrava, il premier socialista francese preferisce lasciare al suo portavoce il compito di annunciare che «l’arrivo di Craxi in Francia non è desiderabile». La voce che parla è sempre tesa, lenta, inconfondibile. Solo per un istante le labbra abbozzano un sorriso, quando racconta le misure di sicurezza imposte dal governo tunisino attorno alla villa: «Sono protetto come se fossi esposto a un grande rischio, a un grande pericolo. Ma non credo... Non sono Trotskij...». Uno stacco e arriva al commiato, improvviso: «È difficile che io venga preso da un rimpianto, più facile che venga preso da quella che si chiama autocritica».
In studio con la Annunziata c’è la figlia Stefania. «Che nel nostro Paese sia in atto uno scontro tra politica e magistratura non se lo sono inventato né Craxi, né Berlusconi, è sotto gli occhi di tutti gli italiani», attacca.

Però, aggiunge, tra questi due capitoli vicini e lontani della storia italiana una differenza c’è: «Gli italiani allora non credettero a mio padre ma a Berlusconi, oggi, credono».

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