Freddezza analitica squisitamente scandinava ereditata dai nonni danesi, impeccabile aplomb britannico conferitogli dalla cittadinanza inglese ottenuta nel 1988 e dal titolo di Lord ricevuto nel ’93, e ferrea disciplina germanica derivatagli dalla nascita ad Amburgo nel 1929, Ralf Dahrendorf portava nei suoi geni culturali tutte le specificità e le contraddizioni di quella civiltà europea dalla quale, per tutta la sua vita di sociologo e filosofo, fu sempre affascinato e verso la quale fu altrettanto critico.
Profondamente europeo, ma non europeista, non amava l’Europa, ma non poteva farne a meno. Equamente sospettoso dell’ampollosa retorica di Maastricht così come del facile sentimentalismo delle «piccole patrie», si professava europeista scettico, nel senso che temeva l’Europa delle banche e della burocrazia come qualcosa che potesse dividere, invece di unire: «I cittadini non sembrano affatto entusiasti del processo di costruzione dell’Europa. Si dice che bisogna portare i popoli dell’Europa più vicini alle istituzioni. Ma io credo che sia esattamente il contrario: sono le istituzioni che devono avvicinarsi alla realtà di tutti i giorni», amava ripetere, sapendo che «l’Europa è diversa in tutto, dalle dimensioni degli Stati agli interessi economici, dal clima alle tradizioni, dai sistemi elettorali alle lingue. Dobbiamo imparare a convivere con la diversità e guardarci dai tentativi di normalizzazione».
Mai davvero convinto che l’«identità» europea potesse essere realizzata attraverso regole imposte dall’alto, vedeva negli Stati nazionali - pur riconoscendone tutte le debolezze - la miglior compagine istituzionale possibile (e l’unica in grado di dare risposte soddisfacenti all’attuale crisi economica, come dichiarò di recente contro la ricetta «globale» di un Barack Obama o di un Gordon Brown). E nello stesso tempo riconosceva nel bagaglio culturale del Vecchio Continente un «patrimonio comune» inalienabile e indivisibile, quello sì fonte e radice di un’identità sovrannazionale: i Marx, gli Hayek, i Furet, che pure non amava così come gli Aron, i Keynes, i Popper (ma non l’ultimo, quello delle crociate contro la televisione) dei quali non avrebbe mai potuto fare a meno. E allo stesso Dahrendorf sarebbe ingiusto negare un posto nella lista dei grandi pensatori europei.
Celebrato caposcuola del liberalsocialismo con un debole per la monarchia inglese, fu rappresentante di spicco di quella cultura liberal che per anni ha cercato senza trovarla una «terza via» capace di far Quadrare il cerchio - come dal titolo di uno dei suoi saggi più famosi - fra creazione di ricchezza, coesione sociale e libertà politica. «La quadratura del cerchio è impossibile - riconosceva il filosofo nel ’95 - ma ci si può forse avvicinare, e un progetto realistico di promozione del benessere sociale probabilmente non può avere obiettivi più ambiziosi». Al di là dell’auspicio umanitario, uno squisito esempio di irrealismo politico. La concretezza della quotidianità, è noto, impone sempre scelte crudeli, prese di posizioni scomode, l’aut aut invece del ma anche. La libertà di mercato spesso e volentieri sbatte contro i diritti sociali, così come la coesione sociale inevitabilmente sopprime ampi spazi della libertà individuale. E allora: come e cosa e con quale ordine di priorità scegliere, si domandano i suoi critici?
Profeta adorato dalla sinistra liberal, animato da una fortissima passione politica, ma al quale non sempre gli eventi hanno dato ragione (il pericolo di derive autoritarie per i governi europei, il fallimento della moneta unica, i rischi delle nuove tecnologie per i meccanismi tradizionali della rappresentanza politica...), Dahrendorf ha incarnato in qualche modo l’impasse delle socialdemocrazie contemporanee, tentate da una sorta di utopica «costituzione cosmopolita della libertà», ma bocciate sul piano del realismo politico dai cittadini europei nella recente tornata elettorale che ha visto la Sinistra franare di fronte alle posizioni meno teoriche e più pragmatiche di un Berlusconi o di un Sarkozy, giudicati capaci di interpretare meglio la crisi economica-sociale di quest’ultimo anno.
Per il resto, Lord Dahrendorf ha sempre inteso e vissuto la carriera accademica e i suoi studi - divisi tra filosofia e sociologia, discipline che ha insegnato nelle maggiori università tedesche a partire dal ’58, ed economia, avendo diretto a lungo la prestigiosa London School of Economics - come propedeutici e complementari all’impegno politico: iscritto prima al Partito socialdemocratico, dal ’69 al ’70 fu membro del Parlamento tedesco per il Freie Demokratische Partei, i liberali tedeschi, ricoprendo l’incarico di sottosegretario agli Esteri e poi quello di Commissario europeo per il Commercio estero e la ricerca scientifica. Esperienze in cui gli furono di non poco aiuto gli studi sulle teorie della società e i fattori del conflitto, elemento integrante - secondo Dahrendorf - in ogni «sistema» civile all’interno del quale gruppi di potere perseguono interessi diversi. Esattamente quello che accade a qualsiasi élite di governo stretta fra esigenze economiche, sociali e politiche: «I Paesi europei - scrive - hanno raggiunto un livello di sviluppo in cui le opportunità economiche dei loro cittadini mettono capo a scelte drammatiche. Per restare competitivi in un mercato mondiale in crescita devono prendere misure destinate a danneggiare irreparabilmente la coesione delle rispettive società civili.
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