Razza, soldi, sicurezza, e sullo sfondo il sesso. Alla fine è lì che si torna. Stephen Amidon ha chiuso il ciclo e con Security (Mondadori, pagg. 342, euro 20) ha messo il sigillo alla trilogia che sente il polso dell’America e racconta le sue paure. Eccola, questa provincia senza redenzione, con le solite villette a schiera e le cassette della posta in alluminio. Le promesse di Obama da queste parti non sono ancora arrivate e il sogno americano è in cancrena da una vita. Amidon non fa politica, ma mette a nudo, scarnificando, le ossessioni della classe media, bianca e nera, di certe cittadine del New England, anonime, tutte uguali, ventre di una società lontana dai salotti letterari e da chi crede che i problemi dell’esistenza siano altri, più lontani o metafisici. Come suggeriva Richard Ford: «Scrivo sui sobborghi perché li conosciamo. È lì che gli americani vivono. È un modo per dire ai lettori: state attenti a quello che vi racconto, perché è lì che passate la vostra esistenza».
E in queste periferie la sicurezza è un problema, che può diventare anche ossessione. Amidon non sogna le ronde. Ma si rende conto che viviamo in paesi controllati da telecamere e sistemi d’allarme. E, a quanto pare, non possiamo farne a meno. Tutto ciò rende un po’ più difficile il nostro rapporto con l’idea di libertà. È questo lo sfondo di Security. Il senso della vita diventa la difesa, dagli altri, da chi non conosci e da chi ti sta accanto. E un po’ anche da te stesso. La periferia è un luogo dove sopravvivono personaggi troppo fragili, che non sanno guardare negli occhi il prossimo. Ti frego, prima che tu possa fregare me.
Qualche tempo fa, quando ancora il suicidio era lontano, David Foster Wallace parlava di quel gruppo di «grossi maschi bianchi», quarantenni o giù di lì, alti almeno un metro e ottanta, quasi tutti con gli occhiali, che stanno cercando di raccontare l’America. Wallace faceva i nomi di Jonathan Franzen, Donald Antrim, Jeffrey Eugenides, Rick Moody, Richard Powers, William Vollman, George Saunders, A.M. Homes. Ma se c’è qualcuno che ti mette davanti allo specchio e ti dice «guardati, questo sei tu» è un ex critico cinematografico e giornalista culturale. È, appunto, Stephen Amidon. Tutta questa gente, diceva Wallace, guarda all’America come a un gigante rattrappito, un po’ isterico, che passa il tempo a scrutarsi allo specchio e non si riconosce, troppo grande, troppo solo, troppo stanco dopo un secolo intenso, megalomane, feroce.
Stephen Amidon vive in un villaggio del Massachusetts con la moglie, fotografa, e quattro figli. È stato per molti anni a Londra, da giornalista, poi è tornato a casa e ha cominciato a raccontare un posto che non riconosceva. Nei suoi romanzi quel sentimento di paura che avvolge l’America non è solo una traccia lontana, ma è lo scenario stesso del dramma, tutto ciò che accade ai suoi personaggi è il riflesso di questo spirito inquieto. Basta leggere Il capitale umano. Il capitale umano, è inutile nasconderlo, siamo noi. Quelli che buttano a mare un’esistenza, vita, sogni, figli, amanti, mogli sul mercato del lavoro. Siamo noi che Amidon descrive: noi che inseguiamo il sogno di una vita a nove zeri per poi trovarci davanti ad un’esistenza che vale «meno di zero». Sperperata, distrutta, dissipata nel cercare di vendere noi stessi in quel mercato del sociale dove «regna la superficialità e dove per vincere basta mettersi in mostra». Sino alla fine, sino a quando, troppo tardi, ci si accorge di tutto ciò che abbiamo perso: sorrisi, carezze, umanità. Poi c’è solo il boom: che non è economico, ma è soltanto una bancarotta esistenziale. Siamo noi che pure stiamo alla periferia dell’impero.
Ma prima del Capitale umano c’era un’altra storia, che qui in Italia per uno strano gioco editoriale è arrivata dopo. Il titolo è La città nuova. È il sogno di un vecchio architetto, disegnare un mondo perfetto come alternativa alle tensioni sociali e razziali delle grandi metropoli. Una città dove non esistono ghetti, dove bianchi e neri, nativi e immigrati, coloni e post-coloni, ricchi e poveri vivono insieme, senza frontiere, senza spartiacque, in una democrazia che non conosce il veleno degli scontri ideologici e religiosi, dove la libertà è la firma sotto la carta di tutte le carte, quella che definisce il confine dei diritti e dei doveri. È una città dove tutti gli uomini nascono liberi, dove non c’è bisogno di polizia perché lo Stato è una comunità di individui che si riconosce nei valori universali dell’uomo. È un luogo dove non ti devi chiedere cosa può fare l’America per te, ma cosa tu puoi fare per l’America. È un congresso di bravi cittadini. Insomma, è un’utopia. La stessa, forse, che nell’euforia dell’indipendenza, in quella festa di bandiere e tacchini che è il 4 luglio, avevano i padri fondatori: i Washington, i Franklin, i Jefferson, i Madison, i Paine. È l’America dei 10 emendamenti. Un’America che forse non c’è più.
L’America si è sempre chiesta chi fosse davvero. E si è cercata dappertutto: con Mark Twain sulle rive del Grande Fiume, nelle notti europee di Parigi o di Madrid, nei treni in corsa in fuga dal ’29, nei bordelli di Nelson Algren, camminando nel lato selvaggio, nelle corriere stravaganti di Steinbeck o nel Sud invitto e irriducibile di Faulkner, nell’uomo invisibile, il nero liberato che l’America non riconosceva, non voleva vedere, di Ralph Ellison. L’importante era fuggire, correre, e raccontare l’America in movimento, con uno sguardo veloce, come faceva in Manhattan transfer John Dos Passos dalla metropolitana di New York. O la stranota, stracitata, straicona, leggenda da consumare in fretta, dell’epopea beat e on the road. La parola d’ordine era, sembrava, «non fermarsi».
Qualcosa è cambiato. L’ultima generazione si è fermata. E ha detto: America chi sei? Il tempo della corsa è finito. Questo è il tempo della ricerca.
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