Ma l’America è lontana

Si stanno dicendo e scrivendo probabilmente molte sciocchezze sulle elezioni di «Midterm» in America, come quando due anni fa si dette per scontata la sconfitta del Presidente a favore di un candidato democratico di cui oggi pochi ricordano il nome. Perderà davvero Congresso e Senato, George W. Bush? Perderà soltanto il Congresso tenendo di stretta misura il Senato? Lo sapremo presto ma per ora tutti i pronostici contro di lui sono pronostici viziati dall'origine. Tutti i media, essendo più o meno «liberal», cioè di sinistra, danno addosso al Presidente e cercano di ridicolizzarlo, puntando sull’esito poco soddisfacente della guerra in Irak.
Ma qui in Italia e in Europa non abbiamo la percezione di come questa guerra incida sull’immaginario collettivo americano. Sono tornato dagli Stati Uniti da poco più di una settimana dopo aver visitato il Dipartimento di Stato, il Pentagono e il quartier generale italiano per la missione in Libano nel palazzo delle Nazioni Unite a New York. Conosco un po’ quel Paese, anzi per dirla tutta ce l’ho nel sangue sia in senso proprio che figurato. E dunque so per esperienza che tutte le previsioni sono sbagliate e che l’americano medio del Midwest, il grande ventre fra i due oceani abitato dai discendenti nordeuropei tedeschi e scandinavi, non vota mai come si voterebbe a Milano o a Parigi. Gli intellettuali «neocon» raggruppati intorno al leggerissimo settimanale Weekley Standard sono alla fronda perché non hanno visto gli effetti speciali di una politica estera vittoriosa su Siria, Iran e Irak, ma anche loro sono sempre soltanto intellettuali.
Se l’americano del Sud è preoccupato per l’immigrazione clandestina e il terrorismo, la California seguita a vivere la sua vita diversa e del tutto inaccessibile ai canoni di interpretazione europei, mentre nel West Wing, nell’ala occidentale della Casa Bianca, il Presidente si trova malgrado le apparenze in una situazione di grande forza perché ha quasi finito il suo secondo mandato e può fare quello che vuole, non teme le urne, non teme per la successione. Questo gli americani lo sanno e tendono a premiare un Presidente fuori concorso: Bush è personalmente al di sopra del giudizio elettorale e non più costretto a compromessi anche se una sconfitta rovinosa al Congresso e al Senato lo metterebbe in una condizione di conflitto più aspro che lo spingerebbe ad un uso più deciso del diritto di veto.
C’è infatti un punto della democrazia americana che in genere sfugge agli osservatori europei: quella democrazia è di fatto una monarchia quasi assoluta. Il Presidente è come un re francese che dipende dal Parlamento quasi esclusivamente per questioni di borsa, di spesa. Quanto al resto, tende a comportarsi come un monarca, ha un suo Secret Service che non è la Cia, ma che somiglia al corpo dei moschettieri del re. Ha potere sovrano e gode di un carisma da sovrano. Sua moglie è la First Lady, cioè non una moglie ma la regina, con il suo potere e la sua corte (Hillary Clinton era una regina molto attiva e determinata). La democrazia repubblicana americana, essendo stata la prima Repubblica moderna in un mondo di re, ha replicato la monarchia rendendola soltanto elettiva, un po’ come il consolato romano. Dunque il Presidente è sempre un sovrano, secondo soltanto a Dio e al controllo del Congresso e del Senato. Ciò rende il comportamento elettorale, l’umore elettorale americano imprevedibile e incomprensibile in Europa e proprio oggi, nel 2006, è ancora più imprevedibile che due anni fa.

Quindi, certo: Bush potrebbe anche perdere di misura queste elezioni. Ma coloro che pronosticano addirittura la sua rovina resteranno molto male, come quando lo dettero per sconfitto due anni fa.
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