L’analisi L’Egitto visto dall’Italia è più Cleopatra che Maometto

Per molti italiani è una scoperta clamorosa: diamine, l’Egitto fa parte del mondo arabo? Ma da quando? Hanno cambiato la storia e la geografia?
Nella nostra percezione sentimentale ed emotiva, l’Egitto è un Paese parente. Fatichiamo a sopportare il complesso di superiorità e l’ipocrisia dei francesi. Fatichiamo a subire la rigidità tedesca. Fatichiamo ad accettare la cinica spocchia degli inglesi. Tutti luoghi comuni, inutile rilevarlo, ma anche questo patrimonio di credenze popolari fa parte delle nostre relazioni internazionali.
L’Egitto no. Gli egiziani no. Loro li abbiamo sempre considerati vicini e affini. Di più: li abbiamo sempre stimati e ammirati, spesso persino con una certa riverenza, per via di quell’antica civiltà così florida, così fastosa, così misteriosa. Cominciamo a studiarli già nelle prime classi delle elementari: il Nilo che si allarga e si stringe come un elastico, lasciando a terra il miracoloso limo, quindi le piramidi, le mummie, la sfinge, i tesori nascosti e tutto quanto il resto. Novantanove italiani su cento non sanno che Maometto è un profeta nato nel 570 a Mecca e morto nel 632 a Medina, ma tutti hanno almeno orecchiato da qualche parte l’affascinante storia di Tutankamen, faraone dei faraoni.
Ce li siamo sempre figurati così, gli egiziani: nipoti privilegiati di quei mitici egizi, bravi nell’architettura, nell’agricoltura, nelle arti, nei mestieri e persino nelle osservazioni degli astri. Con la tendenza che abbiamo noi trogloditi a considerare più o meno tutti venditori di tappeti e di cammelli quelli che abitano sotto la latitudine di Ragusa, mai e poi penseremmo cose così basse e volgari degli egiziani. Per molti di noi, loro non sono neppure africani. Figuriamoci arabi. Ci sarà un perché. Forse la consapevolezza inconscia, sedimentata nei secoli, che anch’essi - come noi e i greci - sono i fortunatissimi eredi di civiltà mai più ripetute. Forse.
E comunque una qualche forma di amichevole affinità l’abbiamo sempre avvertita. Come un’empatia, diremmo oggi con vocabolo trendy. Una volta, un paio di nostri trisnonni romani, prima Cesare e poi Antonio, caddero come bietoloni ai piedi dell’irresistibile Cleopatra, bellezza locale con molti quarti di nobiltà, tanto da farne nascere torride storie di sesso e una gloriosa sinergia pre-imperiale.
Da allora, il grande ponte culturale non si è mai spezzato. Con alterne fortune, con alti e bassi, con chiari e scuri: mai però l’indifferenza. Neppure volendo potremmo rompere il cordone che ci lega all’amato Egitto. Praticamente ogni nostra città ha un obelisco che ci ricorda l’eden al di là del Mediterraneo: le piazze più importanti espongono al centro questi bellissimi monumenti, che nelle varie epoche i nostri viaggiatori si sono portati via come simpatici souvenir dei luoghi attraversati. A Torino conserviamo gelosamente uno dei più bei musei egizi del mondo, forse il più bello del mondo: ci mandiamo le scolaresche e ci mandiamo le coppie in viaggio di nozze, sempre con la stessa deferenza, senza che nessuno ancora oggi osi mettere in discussione la grandezza di quella terra e di quella popolazione.
L’Egitto l’abbiamo dentro di noi. Fa parte di noi. Ci basta rivedere per la quarantesima volta Totò e Cleopatra per sentirlo vicino. Negli ultimi vent’anni, non ne parliamo proprio: ne abbiamo fatto una seconda casa. Nel vero senso della parola. Lungo la costa sul mar Rosso, con epicentro Sharm El Sheik, è più facile sentire il dialetto bergamasco che la lingua del posto. Una volta gli italiani svernavano sulla Riviera ligure, adesso che lì hanno devastato fino all’ultimo centimetro utile si sono spostati in massa alla latitudine desertica del Sinai. Vacanze a basso costo tutto compreso, mare splendido, villaggi con animazione, una puntata alle piramidi per mettersi la coscienza in pace e un’altra al mercato del Cairo, «Dio mio quant’è grande il Cairo», poi in albergo per l’imperdibile polenta e osei che i cuochi del posto fanno meglio di qualunque cuoco orobico...
E allora sia detto a scanso di pericolosi equivoci internazionali: con questo legame così stretto, un tempo fondato sull’egemonia imperiale, oggi sulle palanche e sui bilocali in multiproprietà, è materialmente impossibile finire a maleparole con gli egiziani.

Non esiste proprio. Possiamo persino dichiarare guerra agli americani, prima o poi. Mai litigheremo con la civiltà cugina. E non sarà certo un ministro qualunque a rovinare un così bel rapporto di parentela. Ma quale ministro d’Egitto.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica