di Livio Caputo
Le seconde elezioni irachene dopo la caduta di Saddam saranno le più incerte e combattute mai svoltesi in un Paese arabo. In lizza ci sono almeno tre partiti - l'Alleanza nazionale irachena di Muqtad al Sadr (sciiti religiosi), il Dawa del premier Al Maliki (sciiti più secolari) e il Movimento nazionale iracheno di Iyad Allawi (laici) - che hanno la possibilità di ottenere dal 15 al 25 per cento dei voti, più altri tre che sono intorno al 10 per cento. Nessuno perciò si aspetta che dalle urne emerga il solido e compatto governo che sarebbe necessario nel prossimo quadriennio, in cui si completerà il ritiro americano; dobbiamo aspettarci, piuttosto, settimane e forse mesi di complessi negoziati tra leader rivali per mettere insieme una coalizione che - in qualche modo - riporti il Paese alla normalità e non vanifichi del tutto gli 800 miliardi di dollari spesi finora dagli Stati Uniti per trapiantare la democrazia sulle rive del Tigri.
Oggi come oggi, la situazione si presta come poche al gioco del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Nella colonna dei più c'è - anzitutto - il miglioramento della sicurezza: le vittime di attentati e scontri tra milizie sono scese dalle tremila al mese del periodo 2006-2007 a circa trecento e, con qualche eccezione, la vita ha ripreso un ritmo abbastanza normale. Tra poliziotti e soldati, ci sono di nuovo quasi un milione di uomini in uniforme, che svolgono il loro lavoro in maniera accettabile. La già temutissima Al Qaida in Mesopotamia è stata isolata e ridimensionata. Le tensioni tra i tre gruppi in cui è divisa la popolazione, sciiti, sunniti e curdi, si sono attenuate, anche se il generale Odierno, capo delle forze Usa, teme che in assenza di un accordo sull'autonomia i curdi potrebbero scatenare una guerra di secessione. Infine, sono ripresi gli investimenti stranieri nel settore petrolifero, con la prospettiva di portare, entro qualche anno, la produzione a un livello sufficiente a garantire una esistenza meno precaria alla popolazione.
La colonna dei meno, purtroppo, è molto più corposa. Il Parlamento che ha appena concluso il suo mandato è stato un campione di inefficienza, con il risultato di screditare la nascente classe politica agli occhi dei cittadini e di indurne oggi moltissimi a rimanere a casa. Transparency international giudica l'Irak il quarto Paese più corrotto del mondo, dove bisogna pagare per tutto, da una targa d'automobile (3000 $) a un posto da colonnello dell'esercito (300.000 $). I vari leader hanno speso assai più energie a combattersi tra loro che a provvedere alla ricostruzione postbellica. Il risultato è che l'Irak va alle urne con il 45% di disoccupati, una economia ancora in gran parte pubblica (tre posti di lavoro su cinque sono forniti dallo Stato o dagli enti locali), e infrastrutture in condizioni tuttora molto precarie: strade disastrate, le comunicazioni aeree insufficienti, l'elettricità sempre mancante. Nonostante le note capacità della popolazione, l'iniziativa privata è quasi inesistente, sia perché mancano i capitali, sia perché la gente ha ancora paura. Il risultato è un reddito pro capite da Terzo mondo, a dispetto di riserve di idrocarburi seconde solo a quelle dell'Arabia Saudita.
Nonostante una campagna elettorale molto sporca, costellata da delitti, scandali e attentati, si spera che oggi il voto proceda senza incidenti gravi: il Paese, infatti, viaggia ancora sul filo del rasoio, e basterebbe poco per far precipitare la situazione.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.