L’analisi Toh, si scopre che la Santanchè ha ragione

Sarà molto difficile per la sinistra, i clerici multiculturalisti, i preti che lisciano il pelo agli infedeli, i filo islamici in odio a Israele e tutti i piagnoni del «dialogo» e del «confronto» trovare qualche buon argomento per scagliarsi contro la proposta di legge della Lega vieta d’indossare in luoghi pubblici il burqua o il niqab, il velo col quale s’imbacuccano le fondamentaliste islamiche.
Sarà difficile perché lo sceicco Mohammed Tantawi, niente meno che rettore della più importante e prestigiosa università islamica, quella di Al Azhar al Cairo, ha detto chiaro e tondo che indossare il velo o fusciacca integrale non è un precetto del Corano o una norma della sharia, ma usanza legata alle tradizioni locali.
Quindi la palandra non va considerata, come vorrebbe il luogo comune, un distintivo religioso, ma un semplice capo di vestiario d’origine tribale che lo sceicco Tantawi intende mettere fuori legge (come lo è già negli Emirati, nel Kuwait e nella ortodossa Arabia Saudita). Troverà difficoltà anche il magistrato che su sollecitazione di Abdel Hamid Shaari, capintesta della comunità islamica di viale Jenner, ha aperto un fascicolo a carico di Daniela Santanchè per turbativa di funzione religiosa autorizzata. Un «Via il velo!» non è infatti, parola dello sceicco Tantawi, blasfemia né oltraggio ai sentimenti religiosi di chi l'indossa. È, al contrario, una legittima richiesta motivata da un’esigenza di ordine pubblico - non si possono utilizzare oggetti o indumenti che impediscano il riconoscimento della persona - e dalla pressante aspirazione a che l’integrazione non resti una vuota parola o sia semplicemente intesa quale impegno dei padroni di casa di uniformarsi agli usi e costumi degli ospiti immigrati.
Perché questo è il punto: senza che ce lo ricordasse Tantawi, paludarsi con il burqua non è mai parsa una necessità dettata dalla devozione. Quanto piuttosto dalla caparbia volontà - della donna per sua scelta o perché indottavi dal marito, fratello o padre padrone - di distinguersi, di marcare la differenza, di platealmente dichiarare la propria indisponibilità a uniformarsi alle consuetudini del Paese ospitante. Un atto di sfida, in sostanza, un modo di fare ribaldo e assai poco confacente alla invocatissima integrazione multietnica.
A tutt’oggi, le islamiche devote al burqua approfittano di una legge che consente «per giustificati motivi» di celarsi il volto. E va da sé che giustificati motivi sono ritenuti i precetti religiosi, il pieno rispetto degli insegnamenti di Allah. Ora che lo sceicco Tantawi ha chiarito che col velo Allah non c’entra, il progetto di legge leghista si libera dei presunti - presunti dalla sinistra, ovviamente - connotati anti islamici che avrebbero alimentato chissà quali polemiche.

Meglio così, perché è un bene che quella legge passi e passi in fretta. In caso contrario l’Italia diventerebbe terra d’asilo per tutte le donne egiziane che non vogliono rinunciare ad andare in giro imballate nel burqua, e ci mancherebbe anche questo.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica