L’Antitrust approva: «Bene l’acqua privata»

Roma«Mi sembra un buon provvedimento, perchè dà luogo a una liberalizzazione da tanto tempo auspicata dall’Antitrust». Antonio Catricalà, presidente dell’autorità sulla concorrenza, giudica positivamente il decreto Ronchi, che ieri ha ottenuto alla Camera il definitivo via libera parlamentare con il voto di fiducia.
Le polemiche più dure sul decreto riguardano la liberalizzazione dei servizi pubblici locali, in particolare di quelli idrici. «L’acqua - spiega Catricalà - rimarrà un bene pubblico, ma il servizio verrà finalmente liberalizzato, il che non vuol dire necessariamente privatizzato. Si apre ai privati la possibilità di esercizio in questo settore». Una nota di cautela resta sui possibili aumenti delle tariffe. «È una preoccupazione che condivido - spiega Catricalà, riferendosi all’allarme delle associazioni dei consumatori - se non ci sarà il controllo da parte di una autorità indipendente: se invece saranno chiare le responsabilità, spero che questi timori possano rivelarsi infondati». Il via libera, per quanto informale, dell’Autorità per la concorrenza conferma che il decreto ha visto giusto. Pur restando l’acqua un bene pubblico, «si vogliono combattere i monopoli, le distorsioni, le inefficienze, con l’obiettivo di garantire servizi migliori e prezzi più bassi», spiega Ronchi. Oggi i costi delle forniture sono a macchia di leopardo, gli investimenti minimi, gli sprechi enormi.
Secondo uno studio della Althesys, coordinato dal professor Alessandro Marangoni (Università Bocconi), per raggiungere il livello dei migliori Paesi l’Italia ha bisogno di 51mila chilometri di reti (30 milioni di acquedotti e 21 milioni di fognature), e di rifacimenti per 170mila chilometri, 125mila dei quali per i soli acquedotti. Con un investimento complessivo di 20 miliardi di euro per i soli acquedotti. Le carenze del settore idrico costano agli italiani 110 miliardi di euro. Investendo 20 miliardi nelle nuove reti, se ne risparmierebbero 130 in venticinque anni. Le perdite della rete nazionale, conferma lo studio Althesys, arrivano al 35-40% del totale: uno spreco economico e ambientale enorme.
Ogni anno vanno persi tra i 3 e i 4mila miliardi di metri cubi d’acqua, con un costo stimato di 4-5,2 miliardi. E i cittadini pagano, con l’acquisto di acque minerali (siamo al terzo posto nel mondo per consumi, con una media di 196 litri all’anno pro capite), ma anche con gravi disservizi come le continue interruzioni delle forniture, specie d’estate e nei luoghi turistici.
Il decreto Ronchi non «privatizza» l’acqua. Alcuni lo giudicano addirittura timido, tutt’altro che rivoluzionario. In realtà, le norme fissano una scadenza (il 31 dicembre 2010) per la cessazione delle gestioni frutto di affidamento in house. Le società partecipate possono mantenere i contratti stipulati senza gara fino alla scadenza, se le amministrazioni cederanno loro almeno il 40% del capitale.

Le società quotate hanno a disposizione tre anni in più, purchè abbiano almeno il 40% di quota di partecipazione pubblica entro il giugno 2013, e scendano al 30% nel 2015. Un ordine del giorno della Lega Nord, approvato dal governo, chiede che l’affidamento senza gara rimanga per i Comuni virtuosi. La regione Emilia Romagna pensa invece a un ricorso alla Coste costituzionale.

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