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L’aquila sbaglia strada, i biancocelesti no: continua il volo in vetta

Lungi da noi la voglia di giustizialismo. Ma non sarebbe male se Krasic pagasse con due giornate di squalifica il tentativo (riuscito) di ingannare la terna arbitrale per ottenere un calcio di rigore a Bologna. Logicamente farlocco. Lo vorrebbero le norme regolamentari usate a singhiozzo, una volta sì, nove no. Quanto meno i simulatori ci penserebbero due volte prima di fare il verso a Cagnotto, che di tuffi s’intendeva, tuffi veri, dal trampolino o dalla piattaforma. Per fortuna l’ad della Juventus, Beppe Marotta, ha condannato l’episodio: «Parleremo al più presto con il giocatore che ha sbagliato, ma che conosce i valori veri dello sport». Il comportamento del serbo, tuttavia, non può essere liquidato o addirittura giustificato nel nome d’un calcio votato al business che accetta qualsiasi scorciatoia pur di fare risultato. Altrimenti non dovremmo sbatterci più di tanto sulla questione del doping che accorcia la strada per arrivare al successo e contemporaneamente riduce le aspettative di vita.
Sarebbe un errore parlare di errore arbitrale e basta. Eh no. Il direttore di gara e i suoi collaboratori si sono fatti fregare, in futuro prenderanno le misure ai cascatori di turno. Ma la responsabilità è tutta del signor Krasic che, dopo essersi tuffato di proposito, ha portato avanti il suo disegno. A Portanova che gli urlava di confessare il misfatto, ha fatto spallucce. Un rigore val bene una menzogna che, se non fa rima con truffa, ci somiglia molto. Al serbo bastava alzare un ditino, medio a parte s’intende, per dire all’arbitro che lui era finito a terra senza colpa di chi lo marcava, che insomma non era rigore. Nel basket succede. E il basket non è sport per vergini o dilettanti. Il calcio invece è una repubblica a parte, per un rigore e un gol si fa questo e altro. E la furbata è considerata un arredo del gioco. Che poi Iaquinta si sia fatto parare il rigore è solo nemesi o catarsi. Quanta distanza con l’Inghilterra dove i simulatori vengono fischiati anche dal pubblico amico. In Italia impera il fair-play virtuale, finto da capo a piedi, che non aspetta il fischio dell’arbitro nel caso un giocatore resti a terra, ma che pretende l’interruzione automatica del gioco da parte degli avversari.

E chi non accetta questo codice finisce dentro il tritacarne della vendetta personale e della rissa. Caro Campana, batti un rintocco.
PS: Il discorso vale anche per Mesbah del Lecce che s’è ben guardato dal discolpare Martinez (arrivato per primo sul pallone, per giunta fuori area) nella partita con il Brescia.

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