L'"Ardente disperato" sperava nella Bellezza

Riuniti in un volume tutti gli scritti del funambolico aviatore amico di d'Annunzio

L'"Ardente disperato" sperava nella Bellezza

Poco prima di morire, nel novembre del 1929, Guido Keller aveva scritto al «Capo del governo Benito Mussolini». Non erano passati nemmeno dieci anni dall'impresa fiumana e dal volo su Montecitorio con tanto di pitale pieno di rape e di carote gettato in segno di disprezzo, e sempre più la sua vita era diventata un'angoscia. Nessuno voleva impiegarlo, nessuno sapeva come impiegarlo. Era stato un eroe di guerra, Keller, ma di quelli che in tempo di pace risultano (...)

(...) inservibili: indisciplinato, irridente, fuori dai ranghi e dagli schemi, eccessivo quanto indecifrabile, troppo anticonformista e troppo individualista, oltretutto, per un fascismo che fra conformismo di massa e totalitarismo sperimentava una nuova forma di potere politico: una Rivoluzione che si era fatta Regime, uno Stato che si voleva etico, una nazione che si doveva identificare con un partito e il suo leader.

Così Guido si era risolto a scrivere al Duce e lo aveva fatto con quel misto di distacco e di fierezza che gli era proprio: «Eccellenza, per la leggenda tramandata intorno alla mia persona dagli avvenimenti ormai remoti, svisata dai fatti di ambiente presente, mi viene assolutamente negata la vita di lavoro. Io non posso, Eccellenza, continuare in questo stato poiché il mio spirito è vivo come la mia mente (...). Ove V.E. riconosca la possibilità di potermi utilizzare ovunque occorra, confidi in me senza diffidenze. Se invece debbo essere tacciato di vane colpe che contrastano dolorosamente con la mia anima e coi miei sentimenti, voglia V.E. facilitare il mio viaggio oltre i confini della Patria, per potermi dedicare a un sano lavoro. Mi recherei in Brasile, ove vive mia madre, accanto alla tomba di mio fratello Alberto».

Per uno che in guerra si era guadagnato tre medaglie d'argento come pilota, era un ottimo progettista aeronautico e un magnifico istruttore, ancora nel 1923 aveva volato in Libia contro le tribù ribelli, sembrava che in aviazione non ci fosse posto. Per uno che aveva fatto la Marcia su Roma, sembrava che nel fascismo non ci fosse posto. Lo preferivano fuori Italia, in Medio Oriente, magari, o in America Latina, a perdersi dietro improbabili sogni di riscossa in loco, improbabili consulenze tecnico-militari, molta bohème e niente soldi in tasca. Così si poteva anche ironizzare sul «povero Keller», il «figlio del sole» dai costumi sessuali disinibiti, adepto del nudismo come della cocaina, nobile spiantato al quale fare, di tanto in tanto, la carità... Non aveva nemmeno quarant'anni, ma per chi contava era più un rottame che una risorsa.

Che cosa Mussolini avrebbe risposto a quella richiesta d'aiuto non lo sappiamo, visto che Keller morì pochi giorni dopo averla scritta. In compenso sappiamo che due anni prima Italo Balbo, allora sottosegretario all'Aeronautica, non lo aveva ricevuto, né aveva mai risposto alle sue lettere, e può anche darsi che per far dispetto al narcisismo di «Pizzo di ferro», il duce avrebbe aiutato quello che era stato «l'asso di cuori» della pattuglia Baracca. Il fascismo era anche questa cosa qui, gelosie di primedonne e intrighi, giovinezze arrivate in alto troppo in fretta e quindi superbe, vecchie rivalità mai sopite. Chi a Keller restò fedele almeno da morto fu Gabriele d'Annunzio, che infatti lo fece seppellire al Vittoriale: «Egli era uno dei pochissimi che hanno saputo amarmi come io voglio essere amato. Mi amava aspramente e oggi sembra che si corrucci del mio pianto». Per il poeta, se c'era un uomo che aveva incarnato al meglio l'impresa di Fiume questi era stato Guido Keller e la sua giovinezza gli era sembrato potesse sospendere per un momento la vecchiaia di cui avvertiva il morso. «Sarò il tuo Attila» gli aveva scritto Keller l'anno prima: «Così la tua nave arenata avrà ancora ragione di essere un simbolo per la causa adriatica e il Vittoriale non sarà superato come un qualunque rottame di fronte ai nuovi eventi di luce».

Fra l'esilio volontario di d'Annunzio e la solitudine finale di Keller ci sono più punti di contatto di quanto normalmente si pensi, e questo Ala-Pensiero-Azione, la raccolta degli scritti di Guido Keller curata da Alessandro Gnocchi (Giubilei Regnani, pagg. 296, euro 18) si rivela preziosa anche nel suo metterne a confronto le psicologie, «L'Alchimista dell'eremo di Cagnacco», «Nirvava-demonico Dio», come Keller definiva d'Annunzio, opposto all'«Ardente disperato», «Infinito mobile nell'Infinito», come Keller definiva sé stesso.

Quando i due si incontrarono, ciascuno aveva fatto della propria vita un'opera d'arte e se il «vivere inimitabile» del poeta è cosa nota, bisognerà ricordare che a Fiume Keller non inventò un personaggio, ma si limitò a essere sé stesso. Era già un naturista, era già un panteista, era già un edonista pauperista, era già bisessuale, era già uno scultore e un poeta, era già uno spirito libero, era già un incrocio fra San Francesco e un capitano di ventura... Ciò che però egli prese da d'Annunzio fu l'illusione che una rivolta individuale potesse incarnarsi in un'epopea collettiva, l'azione che si trasformava in mito, l'esempio che diventava un modello esistenziale. Nel d'Annunzio fiumano vide la poesia che si realizzava, diveniva tangibile, si imponeva agli eventi. Come tutti i solitari, Keller aveva bisogno di uno stato febbrile per vivere in compagnia, uno stato d'eccezione dove tutto diveniva possibile e tutto poteva essere condiviso. Fiume fu per molti versi il suo centro, il motivo che gli permetteva di mettersi al servizio di qualcosa che lo completava e in cui era lecito annullarsi.

Gli scritti di Keller, raccolti ora per la prima volta in forma organica, raccontano proprio questo, sulla spinta di un panteismo cosmico, «una misteriosa e inconsapevole ascensione verso la volta perfetta della divinità», nutrito di «parole pensate in una notte indiamantata di mondi, parole vissute in faccia al cosmo che delira di vite misteriose, che rota nella sua infinità che è suo millenario e potentissimo mistero». Delineano anche però, come osserva giustamente Gnocchi, le coordinate ideologico-politico-esistenziali, di un'idea d'Italia non nazionalista, ma rinascimentale, le compagnie di ventura e il predominio della bellezza, la spiritualità e il sentimento antiborghese, l'individualismo contro la massa. Keller fa parte a pieno titolo di quella componente ghibellina e orgogliosamente minoritaria. «Sono un artista assoluto. Voglio la mia anima sublimata d'azzurro. L'Ala Azione nello Splendore», sognatrice che periodicamente riaffiora e si fa sentire nel mare magnum del guelfismo municipale e democratico italiano, l'Italia savia e con i piedi per terra, l'Italia di oggi ovvero l'Italia di sempre, priva di speranze perché incapace di sognare.

Al silenzio del Vittoriale, Keller non si rassegnò mai. Come ogni avventuriero che si rispetti, aveva bisogno di un'avventura che desse un senso a un'unicità anarchica altrimenti priva di un'asse su cui fare perno. Non era semplicemente un soldato, né, semplicemente, un disadattato: era uno che aveva bisogno di mitologie per combattere la pesantezza della vita. Orfano di Fiume e di d'Annunzio, mentre quest'ultimo faceva della sua villa una tomba e un sudario, anche turpe, egli continuò a dibattersi, in cerca del motivo che gli permettesse di continuare a vivere.

Scriverà Giovanni Comisso che «la morte fu per lui una liberazione» e nella sua decrepita vecchiezza, più d'una volta d'Annunzio si deve essere chiesto se non sarebbe stato meglio anche per lui «la morte violenta» che si merita «ogni anima infelice». Il fato fu vile con Keller, perché lo prese a tradimento, ma fu misericordioso, perché gli impedì di sopravvivere.

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