Ergonomia è una parola che suonava già difficile quando era di moda. Figuriamoci ora con la concorrenza di parole dai suoni accattivanti come emozioni o sensazioni, ormai consolidate nel vocabolario del design. L'ergonomia come scienza della progettazione di oggetti e mobili secondo proporzioni dettate dallo studio del corpo umano non è certo scomparsa. Diciamo che appartiene al bagaglio tecnico, privo di appeal, di cui il designer si serve se lo ritiene necessario e che altrimenti senza troppa soggezione relega in cantina, con le cose vecchie che non servono più, ma non si sa mai.
Non sono passati molti decenni dal periodo dell'affermazione internazionale del design italiano, erano gli anni del secondo dopoguerra e della generazione dei Castiglioni, Zanuso, Munari, Magistretti e Mari, eppure i cambiamenti appaiono radicali e come tali vengono percepiti (e non accettati) dai superstiti di quella stagione d'oro, come ha confermato la recente presa di posizione di Enzo Mari. Provocato a dire la sua sui colleghi più giovani, è sbottato definendoli «nani, ballerine. I designer sono i primi tra i miei nemici». Si può capire: uomini che avevano come obiettivo della progettazione la bellezza della forma e l'idea di standard, cioè di oggetti buoni per tutti e lontani dalle mode, uomini che consideravano il design portatore di valori etici, convinti che la rigenerazione del mondo passasse anche attraverso la forma delle sedie, non possono digerire come se niente fosse una trasformazione che ha aperto il design ad ogni tipo di contaminazione proveniente dal mondo della moda, dell'arte, della pubblicità e che lo ha inserito in un circuito di eventi simile a quello dello spettacolo.
È lontana anni luce da loro l'attuale ricerca del design che vede psicoanalisti e filosofi, per lo più anglosassoni, analizzare in che modo i cinque sensi reagiscono agli oggetti di diverso colore, morbidezza, forma, lucentezza e addirittura suono. Ricerche fondamentali per i designer, che hanno prodotto una serie di studi sulle caratteristiche espressive e sensoriali dei materiali, fino ad arrivare alla catalogazione, con criteri verosimilmente obiettivi, degli aspetti che generano sorpresa e stupore. Meccanismi assai importanti per catturare l'attenzione dell'acquirente, come ben sanno gli imprenditori del settore.
Viene da pensare che l'idea un po' calvinista dei maestri del design del dopoguerra non collimasse con l'intenti delle aziende produttrici che erano, cinquant'anni fa come adesso, sempre gli stessi. Produrre qualcosa di nuovo, essere un passo avanti agli altri, rendersi visibili nel mare vastissimo della concorrenza, oppure soccombere cullandosi nei risultati ottenuti. Altre vie più nobili non paiono esistere.
E per ampliare il proprio mercato non basta proporre l'oggetto utile, quello lo possiedono tutti. Ora l'oggetto utile si compera in duplice o triplice copia, purchè si imponga sugli altri come nuovo per la forma o per il materiale inusuale. Deve parlare, prima che alla razionalità, ai sensi e solleticarli. Le aziende leader del design sono quelle che sono riuscite a fare questo passo avanti, immaginando di dare una forma non solo ai bisogni, ma anche ai desideri. Significative, per seguire l'evoluzione del sistema che ha unito moda, design e lusso sono due mostre in corso alla Triennale: C25 Options of luxury, curata dall'architetto del museo del Novecento Italo Rota, e Le fabbriche dei sogni immaginata da Alberto Alessi.
Tutte e due le mostre sono l'ulteriore conferma di quali siano le parole chiave del design, così imprescindibili da essere approdate alla Triennale, che del design è un po' il tempio.
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