Lintervista di Walter Veltroni a La Repubblica di domenica ha scatenato la rissa a sinistra soprattutto perché è apparsa come una apertura al dialogo con il centrodestra, non essendo venuto meno il principio che le riforme si fanno con larghe intese. Romano Prodi ha deciso che il centrodestra non è disponibile al dialogo, quindi il problema non si pone: non ci sono larghe intese, non si riforma niente. In via secondaria, la proposta di Veltroni di dare vita a una Costituente che cominci con il riformare la legge elettorale, che tutti condannano a parole, è sembrata una spinta verso la creazione di due grandi partiti, e a sinistra al riguardo c'è grande confusione. In terzo luogo, l'uscita del sindaco di Roma è apparsa come la protesta di chi è rimasto in piedi e vuole un posto a sedere.
Dietro la cronaca e le osservazioni ovvie e vere si nasconde il vero nodo, che è la riforma in se stessa, anche della sola legge elettorale, perché una vera riforma della Costituzione andrebbe a intaccare il potere del presidente della Repubblica, cresciuto a dismisura dal 1992 in poi, fino a farne una specie di governo-ombra che a volte sostiene e a volte contrasta il governo formale espresso dagli elettori e fiduciato dal Parlamento. Contro la prospettiva del ridimensionamento del Quirinale si costituisce uno schieramento forte, che ha colpito la riforma del centrodestra a giugno e adesso colpisce Veltroni.
Infatti, se l'obiettivo della legge elettorale è quello di produrre un governo stabile - un governo di legislatura guidato dal medesimo premier - esso non può non produrre una rivoluzione istituzionale a spese dei poteri del Capo dello Stato. Il ragionamento è lineare:
- attribuendo dagli elettori la vittoria e il premio di maggioranza al partito il cui leader diventa automaticamente presidente del Consiglio, si toglie al Quirinale il potere di designare il capo del governo;
- questo primo ministro deve avere anche il potere di nominare (o di revocare) i ministri, togliendo al Quirinale il potere di negoziare la composizione del governo, ciò che avviene durante le consultazioni, e quindi di nominare i ministri «su proposta del presidente del Consiglio»;
- un tale primo ministro deve avere anche il potere di sciogliere anticipatamente le Camere, altrimenti i due poteri precedenti non avrebbero senso, ma con ciò si priverebbe il Quirinale di quello che è il suo massimo potere.
In sostanza, quindi, una vera riforma, sia elettorale sia più ampiamente costituzionale, deve passare per un forte ridimensionamento dei poteri del Quirinale. È contro questa prospettiva che si forma una opposizione trasversale che non solo comprende segmenti dei partiti politici, i cui leader non contestano il potere del Quirinale purché questo sia dalla loro parte, ma si estende alle altre istituzioni che, in modo diretto o indiretto, hanno come referente la presidenza della Repubblica: dalla Corte costituzionale alla Corte dei conti, dal Consiglio superiore della magistratura alla Banca d'Italia, dai sindacati (coautori della Finanziaria e veri padroni della finanza pubblica) a tutti gli alti gradi della Pubblica amministrazione, cioè il vero e proprio establishment.
Ecco perché la proposta di Veltroni ha suscitato quella forte reazione nell'ambito di quella parte «istituzionale», vecchia o nuova, del centrosinistra, che dal 1992 in poi ha sempre avuto nel Quirinale un sicuro punto d'appoggio e che trova qualche sponda anche nel centrodestra. Questo spiega perché non si riesca a passare dalla Prima alla Seconda Repubblica.
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