Nella sua biografia dei due assassini più sanguinari e dei più malvagi mostri morali del Ventesimo secolo, Stalin e Hitler (ma Mao non è con loro? E perché non dare anche a Pol Pot l’opportunità di partecipare?), Alan Bullok ristampa, una di fianco all’altra, le fotografie di classe del giovane Josif e del giovane Adolf scattate rispettivamente nel 1889 e nel 1899, in altre parole, quando entrambi avevano dieci anni. \.
È possibile che alcuni di noi siano cattivi già dal momento in cui abbandonano il ventre materno? Se non è così, allora, quand’è che il male entra dentro di noi, e come? Per porre la domanda in una forma meno metaforica, possiamo chiederci, perché alcuni di noi non sviluppano mai una coscienza morale limitante? Per quanto riguarda Stalin e Hitler, dove sta l’errore? Nel modo in cui sono stati educati? Nelle pratiche educative in uso a fine Ottocento in Georgia e in Austria? Oppure da ragazzi avevano sviluppato una coscienza e poi, a un certo punto della loro vita, l’avevano persa? Forse, al tempo di quelle foto, Josif e Adolf erano ancora dei normali e bravi figlioli e sono diventati dei mostri solo più tardi, a causa di un libro che hanno letto, o delle compagnie che hanno frequentato, o delle difficoltà del loro tempo? Oppure, dopotutto, non è accaduto nulla di speciale in loro, né prima né dopo: forse il copione della storia richiedeva semplicemente due assassini, un Assassino in Germania e un Assassino in Russia? E se Josif Džugašvili e Adolf Hitler non si fossero trovati al posto giusto nel momento giusto, la storia avrebbe trovato un’altra coppia di attori, altrettanto bravi (cioè, cattivi) da interpretare quei ruoli? \
Nel Castello nella foresta Mailer ha scritto la storia del giovane Hitler; in particolare, la storia di come il giovane Hitler è stato posseduto delle forze maligne. \
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Quando entrò nell’arena politica negli anni ’20, Adolf Hitler fece di tutto per nascondere e addirittura falsificare la sua genealogia. Forse perché credeva di avere un antenato ebreo, o forse per un altro motivo. Agli inizi degli anni ’30 i giornali d’opposizione cercavano di screditare l’Hitler antisemita mettendo in luce la presenza di un ebreo all’interno della sua cerchia familiare; i loro tentativi terminarono bruscamente quando i nazisti presero il potere. \
Nel Mein Kampf, il libro che scrisse in carcere nel 1924, Adolf dà una versione molto depurata delle sue origini. Non ci sono riferimenti a incesti, illegittimità, né all’esistenza di progenitori ebrei, non c’è nulla neppure sui fratelli. Quella che ci viene presentata, invece, è la storia di un ragazzino brillante che resiste a un padre tiranno (sebbene amato), intenzionato a fargli seguire i propri passi introducendolo nell’amministrazione pubblica. Ma il ragazzo è determinato a diventare un artista e si fa deliberatamente bocciare agli esami scolastici, contrastando così i piani del padre. A questo punto, il padre provvidenzialmente muore e il ragazzo, sostenuto da una madre ancora più amata, è libero di seguire il proprio destino. \
Nel romanzo di Mailer è presente tutto il conflitto fra Alois senior e Adolf, anche se, diversamente dal solito, viene visto più dalla parte del padre, che da quella del figlio. Alois, il tanto denigrato tiranno domestico, appare come uno scaltro funzionario di dogana, che ispira simpatia, un marito orgoglioso della propria virilità nonostante l’età avanzata, un devoto ma sfortunato amante dell’apicoltura, un uomo di scarsa istruzione ansioso di ascendere la scala sociale. Le scene in cui Alois si sforza e si affanna per non rendersi ridicolo durante le riunioni con i notabili della cittadina sono all’altezza del Flaubert di Bouvard e Pécuchet.
L’Adolf di Mailer, al contrario, è un bambino poco interessante, piagnucoloso, manipolativo, spinto da desideri incestuosi, gelosie edipiche e profondamente implacabile. Ha un cattivo odore di cui non riesce a liberarsi; ha anche l’abitudine di svuotare gli intestini quando è spaventato. La sua azione più scioccante è quella di infettare deliberatamente il suo grazioso e amato fratello Edmund con la rosolia. \
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Al tempo del suo ingresso in politica negli anni ’20, aveva già lasciato perdere ogni pretesa artistica, trovando per sé un modello molto più congeniale. Il suo idolo era diventato Federico II di Prussia, Federico il Grande: negli ultimi mesi della guerra, assediato nel suo bunker a Berlino, si distraeva ascoltando letture della biografia di Federico scritta da Thomas Carlyle, antidemocratico, germanofilo e maggiore propagandista della teoria della storia del grande uomo. Lui.
Hitler era ossessionato dall’idea del suo posto nella storia, ossia, dal problema di come le sue azioni nel presente sarebbero apparse nel futuro. «Ci sono due possibilità per me», disse a Albert Speer, «avere pieno successo o fallire. Se avrò successo, diventerò uno dei più grandi uomini della storia - se fallirò, sarò condannato, rifiutato e dannato». \
La confluenza del concetto di genio - l’essere umano di potenza creativa quasi divina, lontano dal gregge - con il concetto di grande uomo, l’uomo che rappresenta e innalza ai massimi gradi la qualità della sua epoca, che scrive la storia piuttosto di venire scritto da essa, contaminata in aggiunta dalla nozione del grande criminale, il ribelle le cui azioni luciferine sfidano le norme della società, ha avuto un potente effetto formativo sul carattere di Hitler. Nel Mein Kampf c’è un accenno al fatto che la teoria del grande uomo gli fu svelata, per la prima volta, da un docente di storia a scuola. All’età di quindici anni il ragazzo si battezzò genio. Per quanto riguarda i grandi crimini (per i quali, come riconosce Stavrogin, possono qualificarsi quelli che appaiono piccoli crimini purché sufficientemente squallidi, meschini, perversi e vili), la vita nella famiglia di Hitler, almeno nella versione che ne dà Mailer, forniva sufficiente occasione di pratica al giovane Adolf. \
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Senza un padre fra i piedi che lo infastidisse e con una madre arrendevole che accontentava i suoi bisogni, dopo la scuola superiore Adolf fece una pausa di due anni. Trascorse quel periodo a casa: di notte leggeva (il suo autore preferito era Karl May, autore tedesco di racconti western), di giorno si alzava tardi, disegnava schizzi e saltuariamente strimpellava il pianoforte. \
È verità lapalissiana che il carattere si formi nei nostri primi anni di vita, che il bambino è padre dell’uomo. Ma in Austria c’erano migliaia di bambini che amavano le madri e avevano dei risentimenti verso i padri, che andavano male a scuola, eppure non sono diventati assassini di massa. A meno che non si sia pronti a fare il genere di salto che fa Mailer, dalla fedeltà al reale alla comprensione intuitiva, nessuna rielaborazione della magra documentazione storica dell’infanzia di Hitler potrà rivelarci cosa aveva di speciale, cosa lo ha reso diverso dai suoi contemporanei. \
Nel 1907 Hitler sostenne l’esame di ammissione all’Accademia d’arte di Vienna. Con sua grande sorpresa e irritazione, però, non fu ammesso. «Test di disegno insufficiente», era stato il verdetto degli esaminatori; gli consigliarono di provare con architettura. Poiché gli mancavano le conoscenze tecniche di base per l’architettura, non poté seguire il consiglio degli esaminatori. Trascorse l’anno successivo bighellonando per Vienna. Soggiornava in pensioni e scriveva lettere a casa in cui faceva credere di essere studente dell’Accademia, leggeva molto e andava all’Opera quando poteva permetterselo. Il suo compositore preferito era Wagner: affermò di aver visto almeno trenta rappresentazioni di Tristano e Isotta. Sessualmente rimase casto o, almeno, autosufficiente: aveva il terrore di essere contagiato con la sifilide.
Richiamato a Linz al capezzale della madre malata di cancro, la assistette per tutto il periodo della dolorosissima malattia. Dopo la sua morte tornò a Vienna e per la seconda volta tentò senza successo gli esami di ammissione all’Accademia d’arte. Faceva molto freddo l’inverno in cui esaurì tutti i fondi e fu costretto a trovare rifugio in un ospizio per senzatetto. In seguito, con l’aiuto di una conoscenza, iniziò a vendere i suoi quadri e il futuro apparve subito più radioso. Prese residenza in un club operaio e condusse una vita di artista part time per il mercato turistico. Nel 1913 lasciò Vienna e andò a Monaco, stabilendosi nel quartiere bohémien. Non si sa se il trasferimento sia stato una conseguenza del foglio di chiamata alle armi nell’esercito austriaco.
Gli anni viennesi esigono un romanzo di un certo tipo, un romanzo che faccia per la Vienna di Hitler ciò che I quaderni di Malte Laurids Brigge hanno fatto per la Parigi di Rilke o Fame per la Oslo di Knut Hamsun: una miscela di esperienze interiori ed esteriori che non ci rendano solo il mondo in cui il soggetto si è mosso, ma anche i suoi sentimenti su quel mondo e le sue risposte ad esso. Con il supporto di studi accademici come Hitler: gli anni dell’apprendistato (ed. it. 1998) di Brigitte Hamann, il romanziere che accetta la sfida può non solo ripercorrere a ritroso le linee di sviluppo dell’ideologia nazionalsocialista fino alla loro origine, ma anche permetterci di capire come e perché queste linee si siano intrecciate nella mente di Hitler.
Dei vari aspetti del periodo viennese di Hitler su cui potrebbe lavorare un romanziere di orientamento storico ne cito tre. Primo: nonostante a volte gli capitasse di patire la fame e di essere disperato, Hitler disdegnò sempre il lavoro manuale. Secondo: odiava Vienna. Terzo: in questa fase della sua vita poteva legittimamente essere chiamato artista o intellettuale, per quanto insignificante.
Hitler disdegnava il lavoro manuale perché lo trovava incompatibile con il suo status - uno status debole, se si considera la sua educazione lacunosa e il fatto che i suoi genitori erano di origini contadine -, lo status di membro della bassa classe media. La sua ostilità al socialismo nacque dal timore fondato di venire risucchiato nel lumpen (sotto) proletariato dei migranti rurali senza lavoro che si riversavano in città dai vari angoli dell’Impero.
Non gli piaceva Vienna perché a Vienna, per la prima volta, comprese che lui, di etnia tedesca, apparteneva a una minoranza - per quando potente - in uno stato multietnico. Per la strada si ritrovava spalla a spalla o doveva addirittura competere con persone che parlavano idiomi incomprensibili, che si vestivano in modo diverso e avevano strani odori: sloveni, cechi, slovacchi, magiari, ebrei. Una xenofobia che all’inizio era sospettosa e difensiva, la diffidenza di un giovane provinciale verso gli stranieri, ma che si indurì diventando intollerante, aggressiva, fino a sfociare nel genocidio. \
Delle tante nuove idee a cui era esposto, ne selezionò alcune che poi mise insieme alla bell’e meglio per comporre la filosofia del nazionalsocialismo. La pseudoantropologia di Guido von List fece una profonda impressione su di lui. List divideva l’umanità in una razza ariana padrona, che aveva origine nelle più nordiche fortezze d’Europa, e in una razza di schiavi con cui gli ariani, nei secoli, si erano incrociati. Esortava al recupero della pura linea di sangue ariano attraverso una rigida segregazione sessuale dalla razza schiava, ottenibile con la creazione di uno Stato che comprendesse padroni ariani da un lato e schiavi non ariani dall’altro e che fosse retto da un Führer, un uomo al di sopra della legge.
Un altro dei ciarlatani che influenzò Hitler fu Lanz von Liebenfels, fondatore dell’Ordine dei Nuovi Templari ed editore della rivista Ostara, di cui Hitler era avido lettore. Liebenfels era un misogino estremista che considerava esseri inferiori le donne, le quali, per loro stessa natura, venivano attratte dai «primitivi e sensuali uomini scuri delle razze inferiori». \
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Come racconta lui stesso, Hitler entrò in politica solo alla fine del 1918, quando, dopo aver sentito che la Germania si era arresa con condizioni umilianti, giurò di dedicarsi, a qualsiasi costo, alla riconquista per la Patria di un suo posto in Europa. Decise che per una tale impresa la Germania avrebbe avuto bisogno di un leader forte e pronto, in primo luogo, a purgare il Volk da ebrei, comunisti, omosessuali e da altri elementi inferiori. \ Possiamo dunque dire che verso la fine del 1918, quando fece quel voto a qualsiasi costo, stipulò un patto col diavolo e che il diavolo entrò nella sua anima? \
«Le persone più istruite», scrive Mailer attraverso il suo anonimo portavoce «sono pronte a ribellarsi all’idea che esista un’entità come il diavolo... Non bisogna sorprendersi, allora, se il mondo ha una comprensione così limitata della personalità di Adolf Hitler. Avversione, sì, ma comprensione di lui, no - dopotutto, lui è l’essere umano più misterioso del secolo».
Il problema Quando è successo che il diavolo è entrato nell’anima di Hitler? dunque, ha un significato molto preciso per Mailer. La sua risposta è: nel momento del suo concepimento, nello stesso esatto modo in cui Dio, nel dogma cristiano, era presente ed entrò nel concepimento di Gesù. Nella storia di Mailer il diavolo prese possesso di Adolf Hitler nove mesi prima della sua nascita nell’aprile del 1889 e vi restò fino al giorno della sua morte nel 1945, per comandare il mondo.
Una risposta a questa forma richiede un sostegno teologico e metafisico, che Mailer (con accenno a John Milton), non esita a fornire. Così come c’è un Dio, nel racconto di Mailer c’è anche un diavolo supremo, che i suoi subalterni chiamano il Maestro. Ciascuno di noi ha una visione di come può essere il nostro mondo, ma dal momento che nessuno è onnipotente, nessuno può imporre la propria visione. I dodici anni di Terzo Reich rappresentano un trionfo del Maestro; senza dubbio anche Dio ha le sue vittorie, anche se non vengono riportate nel libro di Mailer.
La storia del giovane Adolf viene narrata da uno dei diavoli di rango medio nell’organizzazione infernale, un funzionario incaricato di tenerlo d’occhio per assicurarsi che non si allontani dal sentiero della malvagità. Adolf non è il solo compito assegnato al diavolo; nel 1895 deve prendere una pausa di 45 pagine per contrastare il progetto benevolo di Dio per i Romanov in Russia, e nel 1898 una pausa più breve per sovrintendere all’assassinio dell’imperatrice Elisabetta d’Austria. \
Il racconto che Mailer ci fornisce, attraverso il suo narratore, delle lunghissime guerre tra forze celestiali e infernali, e di faide interne alla burocrazia infernale, per quanto sia fatto abilmente, è l’aspetto meno interessante del romanzo. Ma, per lo meno, la risposta che ci dà alla domanda su Adolf nella foto di classe è una risposta diretta. Sì, Adolf era cattivo anche nel 1899. È stato un bambino cattivo prima di essere un uomo cattivo, ed è stato un cattivo infante prima di essere un bambino cattivo. Alois e Klara Hitler sono ritratti convincenti di persone che fanno del loro meglio come genitori, considerando che sono umani e la natura umana è fragile, e che hanno forze soprannaturali contro di loro. Anche Adolf è convincente come bambino spaventoso e repellente. Nonostante gli interventi soprannaturali, Mailer non si è limitato a scrivere un romanzo sul soprannaturale, un romanzo gotico. Anche se le forze oscure si sono impossessate della sua anima, Adolf rimane incrollabilmente umano, uno di noi. \
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Mailer ci conduce nella mente di un bambino sgradevole che si eccita fisicamente alla vista delle api bruciate vive e che si masturba ascoltando la tosse emorragica del padre. Così facendo lo scrittore sta forse affermando che iniziamo a comprendere Hitler? Che ci riusciamo perché ci accorgiamo che le azioni malvagie dell’uomo cresciuto non sono diverse nel genere - sebbene molto diverse in scala - dalle azioni della sua infanzia, espressione di una contorta psicopatologia, brutta al punto da rasentare la natura diabolica? Sta forse rinnovando, in altri termini, l’opinione di Dostoevskij che non esistono grandi crimini, che la fantasia di grandezza del criminale non è che un’altra delle eresie dell’ateismo? Tutto il male è nella sua essenza banale, e noi cadiamo in una delle astute trappole del Diavolo quando trattiamo il male con rispetto, quando lo prendiamo seriamente?
In altre parole: quanto seriamente il libro di Mailer su Hitler \ intende essere una biografia del rappresentante terreno di un Dio per nulla onnipotente, un giovane turbato che sente voci senza capire in realtà da dove vengano? Forse, il tono del Castello nella foresta, a volte così leggero da sfiorare il comico, indica che dovremmo prendere gli eventi celestiali e infernali cum grano salis? Perché, nonostante la presenza del diavolo in lui, non sembra esserci motivo per temere il giovane Hitler più di uno scaltro cane randagio? E perché il Dio di Mailer è un incapace fantoccio (fra i diavoli si fa sprezzante riferimento a lui come a der Dummkopf)?
La lezione di Adolf Eichmann, scrisse Hannah Arendt alla conclusione di Eichmann a Gerusalemme, è quella della «spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male». Da quando fu scritta nel 1963, la formula banalità del male ha acquisito una sua vita propria. \
Da liberale laica, dice Mailer, la Arendt è cieca al potere del male nell’universo. «Supporre... che il male in sé sia banale mi colpisce in quanto dimostrazione di una prodigiosa povertà di immaginazione». «Se Hannah Arendt ha ragione e il male è banale, allora è molto peggio della possibilità opposta che il male sia satanico» - peggio nel senso che non c’è lotta fra bene e male e perciò non c’è significato all’esistenza. \
Nel 1946 la Arendt ebbe uno scambio epistolare con Karl Jaspers, provocato dall’uso che il filosofo faceva del termine criminale per caratterizzare le politiche naziste. In confronto alla mera colpa criminale, scriveva la Arendt, la colpa di Hitler e dei suoi complici «oltrepassa e riduce in pezzi ogni qualsiasi sistema legale».
Jaspers si difese: se si ammetteva che Hitler fosse più di un criminale, disse, si rischiava di ascriverlo alla «grandiosità satanica» alla quale aspirava. La Arendt prese a cuore quella critica. Quando scrisse il libro su Eichmann, cercò di tenere vivo il paradosso sul fatto che, nonostante le azioni di Hitler e dei suoi complici sfidassero la nostra comprensione, non c’era profondità di pensiero dietro la loro idea, non c’era grandeur di intenzioni. Eichmann, un uomo per nulla interessante dal punto di vista umano, in tutto e per tutto un burocrate, non aveva mai compreso, nel pieno senso filosofico della parola, ciò che stava facendo. Lo stesso valeva, mutatis mutandis, per il resto della combriccola.
Prendere la frase «la banalità del male» per riassumere il verdetto della Arendt sui misfatti del nazismo, come sembra fare Mailer, significa dunque perdere la complessità del pensiero che la sottende: ciò che è peculiare della banalità quotidiana di una politica di sterminio all’ingrosso, burocraticamente amministrata e organizzata in modo industriale, è che essa «sfida parola e pensiero», è indicibile e inimmaginabile, va oltre la nostra capacità di capire e di descrivere.
Di fronte alla vastità della morte, della sofferenza e della distruzione di cui è stato responsabile l’Adolf Hitler storico, la comprensione umana rifugge sconcertata. In modo diverso, la nostra comprensione potrebbe rifuggire quando Mailer ci dice che Hitler è responsabile del Terzo Reich solo in senso mediato - che la responsabilità finale ricade sull’essere invisibile noto come il Diavolo o il Maestro. Il problema qui sta nella natura della spiegazione che ci viene offerta: «È stato il Diavolo a farglielo fare» non si appella alla comprensione, ma solo a un certo tipo di fede. Se prendiamo sul serio la lettura che Mailer dà della storia mondiale come guerra fra bene e male, in cui gli esseri umani agiscono per procura di agenti soprannaturali - ossia, se prendiamo questa lettura come valore assoluto invece che come una metafora estesa e non molto originale del conflitto irrisolto e irrisolvibile all’interno della psiche dell’individuo - allora il principio che gli esseri umani sono responsabili delle loro azioni viene sovvertito, e con esso anche l’ambizione del romanzo di scoprire e parlare della verità della nostra vita morale.
Fortunatamente, Il castello nella foresta non chiede di essere letto come valore assoluto. Sotto la superficie, vediamo che Mailer lotta con lo stesso paradosso della Arendt. Invocando il soprannaturale, forse sembra affermare che le forze che animavano Adolf Hitler erano più che semplicemente criminali; eppure, il giovane Adolf che porta in vita nelle sue pagine non è certo satanico, e neppure demonico: è semplicemente una brutta opera.
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