L’arte? Oggi è la scienza più rigorosa

L’indimenticato Emmett Lathorp Brown, «Doc» per gli amici, l’inventore pazzo di Ritorno al futuro interpretato dall’attore Christopher Lloyd, incarnava alla perfezione la figura archetipica di chi, a furia di stare chiuso al buio del proprio laboratorio, concentrato sulle sue assurde scoperte, staccava del tutto i contatti con la realtà, sviluppando una forma di autismo e follia.
Nell’accezione contemporanea lo scienziato non è poi così distante dall’artista. A entrambi interessa la «ricerca pura»; tutti e due inseguono l’utopia del progetto, la bellezza della cosa inutile, il sogno irrealizzabile. E finiscono anche per somigliarsi fisicamente: trascurati come chi non ha tempo di pensare all’inutile apparenza, stropicciati quanto uno appena alzatosi dal letto, capelli in disordine, occhi spiritati. A partire dalla buffa immagine di «Doc» Brown, arte e scienza potrebbero dunque andare a braccetto come ultimo ritrovato nel campo delle cosiddette contaminazioni. Dopo cinema, musica, letteratura, moda, design etc. è dunque il turno del più speculativo e meno figurabile tra i linguaggi. Pur sapendo che rappresentare una formula matematica o una scoperta scientifica rischia di apparire o troppo didascalico o eccessivamente tecnologico, in stile mostre tematiche alla «Experimenta», non sono pochi gli artisti che oggi si fanno affascinare da un universo di segni così articolato e inafferrabile.
È Marino Golinelli l’anima di «Antroposfera. Nuove forme della vita», aperta dall’11 al 21 marzo al Palazzo Re Enzo di Bologna e inserita nella manifestazione «La scienza in piazza». Dandy novantenne che non si stanca di girare il mondo per convegni scientifici, mostre e musei, vantando insieme alla moglie Paola una delle più interessanti collezioni d’arte contemporanea, ha promosso questo interscambio convinto che entrambe, l’arte e la scienza, siano due modi per andare oltre la realtà delle cose. Golinelli ha scelto insieme ai curatori Giovanni Carrada e Cristiana Perrella i lavori di tredici artisti particolarmente sensibili al tema. Tra questi il più famoso è l’argentino Tomas Saraceno (una sua gigantesca ragnatela apriva l’ultima Biennale di Venezia) che ripropone Biosphere, installazione di capsule galleggianti al cui interno sono ospitate alcune rare specie vegetali. Sintesi ideale tra la visionarietà spaziale e la minuziosa osservazione. Decisamente più ironico il friulano Nicola Toffolini, che ha costruito una vasca hi-tech piuttosto stretta per una carpa costretta ad abitarci frustrando le sue abitudini di pesce libero. Interessante il quesito posto: se sia meglio una prigionia dorata dove però nessuno si sognerà mai di trasformarti in un pranzo oppure la lotta quotidiana per sopravvivere senza alcun tipo di protezione né di garantismo (ovviamente, noi uomini di destra preferiamo questa seconda ipotesi).
Altri lavori sono incentrati su riflessioni di natura ecologica, branca della scienza che permette di sentirsi eticamente impegnati e responsabili, al punto che stanno nascendo diverse opere eco-compatibili o a basso impatto ambientale: Lucy & Jorge Orta riflettono sul problema dell’accesso alle risorse idriche, mentre Brandon Ballengé, che si autodefinisce «eco-artista americano», documenta le deformazioni scheletriche degli anfibi nel Nord America, risultato (secondo lui) dell’impatto nocivo delle attività umane sulla natura. Non immaginiamoci spunti unicamente teorici e documentari, perché alcuni di questi artisti hanno un discreto senso della spettacolarità e della forma. La vera notizia è però nell’assenza dell’opera più significativa, ovvero la petunia transgenica di Eduardo Kaç (vincitore del Prix Ars Electronica 2009), particolare pianta inventata in laboratorio contenente un gene dell’artista. Ebbene, questo fiore è rimasto bloccato negli Usa dalle leggi vigenti in merito all’importazione degli organismi geneticamente modificati.
L’approccio generale di «Antroposfera» risulta sottile e intrigante. Ben diverso il mood che si respira a «DigitaLife Enpower your senses», globalizzata fin dall’assurdo titolo, inaugurata alla Pelanda di Roma nell’ex Mattatoio a Testaccio (fino al 2 maggio). Una mostra, o per meglio dire un gruppo di installazioni interattive, basata sul principio di seduzione della tecnologia fine a se stessa. Denominatore comune di questi allestimenti è il sottofondo di musica sperimentale, che da solo dovrebbe garantire un surplus di intelligenza ed è invece tra i luoghi comuni più triti. Si presta al gioco persino Sakamoto, scrivendo la partitura per l’opera di Shiro Takatano: tra rumori di fondo, gocciolature, tintinnii vari, ti aspetti solo che entri una geisha a servirti una tazza di the verde.
Anche una tecnica antica come la pittura può rapportarsi oggi alla scienza. Prendiamo il duo campano TTozoi (Forgione e Rossi), presentati al Castel dell’Ovo di Napoli (fino al 20 marzo). I loro dipinti astratti sembrano citazioni dall’Informale e invece sono ottenuti cospargendo le tele di pigmenti e materie organiche lasciate riposare per una settimana dentro una serra umida allo scopo di ottenere una muffa.

Nemmeno gli artisti sanno che cosa ne verrà fuori, così il quadro si fa da solo secondo un processo naturale alterato dalla scienza. Ciò che normalmente verrebbe scartato, perché stantio e marcescente, è invece il primo possibile stadio di una «rinascita» artistica, senza produrre un surplus di materie ed elementi ma riciclando l’esistente.

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