L’assurda allergia a una svolta che è inevitabile

Una frase sintetizza bene il succo del pensiero di Marchionne nel suo discorso di ieri al Meeting di Comunione e Liberazione: «Troppo spesso l'elogio del cambiamento si ferma sulla soglia di casa». Semplice ma decisivo. A volte, quando da una soffitta impolverata si ripescano vecchi giornali, si scopre che, per quanto riguarda la politica e il sindacato, il tempo non è mai passato. Vi è stata l’eccezione della storica operazione anti inflazione della scala mobile del 1984, fiore all’occhiello del decisionismo di Craxi e che in ogni caso richiese un referendum (peraltro vinto, dimostrando che quando un governo si muove nella direzione giusta i cittadini seguono anche nelle strade impopolari), ma al di fuori di quello e dei cambiamenti introdotti solo a carico delle nuove generazioni il giorno della svolta in Italia è sempre domani. L’amministratore delegato della Fiat ci sta facendo capire in modo sempre più palese che il lusso dell’immobilismo non è più possibile e se non si troverà la volontà di far saltare via la ruggine dagli ingranaggi, questa volta non ci sarà appello. Il discorso è semplice. Produrre in Italia sta diventando industrialmente insostenibile: la burocrazia è assurda, le regole infinite, la certezza del diritto è un ricordo, i tempi per i recuperi dei crediti sono da primato negativo, le tasse (per chi le paga) sono altissime, le infrastrutture sono arretrate e i lavoratori hanno ragione anche quando e se hanno torto. Si dirà che niente di tutto ciò è una novità, eppure siamo ancora tutti vivi. Verissimo, ma c’è una differenza fondamentale con il passato: non ci sono più i soldi in cassa con cui la mucca statale finanziava l’inefficienza e la non competitività del pubblico e di molti privati, "vecchia" Fiat in prima fila.
Il rubinetto si è chiuso senza che nemmeno ce ne accorgessimo con l’introduzione dell’euro e con lo stop alla possibilità di stampare soldi e debito. Per anni il problema è stato posto sotto il tappeto grazie alla congiuntura internazionale favorevole che ci ha consentito di vivacchiare bene pur perdendo posizioni nei confronti degli altri Paesi, adesso è finita. Finito il salvadanaio dei nipotini (il debito) e la vincita al lotto (la crescita mondiale degli anni 2000), adesso tocca rimboccarsi le maniche e lavorare davvero. C’è un manager come Marchionne che sta facendo un mezzo miracolo e sta giocando all’attacco verso il mondo con la nostra maggiore industria manifatturiera e invece di sostenerlo ancora qualcuno pensa che con i soliti giochetti sindacali e con la sponda della sempre compiacente magistratura si riuscirà a soffocare il pericolo dell’odiato cambiamento? Pia illusione. Questa volta la Fiat potrebbe sbaraccare davvero, così come mille altre aziende piccole e medie hanno già fatto alla chetichella, e se non si produce in Italia i denari non ci saranno per nessuno, nemmeno per le pensioni. Ha detto Tremonti che con i diritti perfetti la fabbrica chiude. Triste ma ineccepibile. O troviamo il coraggio di accettare il «nuovo patto sociale» evocato da Marchionne, oppure i lavoratori al bordo della strada ma che «hanno tenuto duro» non si conteranno, perchè i denari statali per "ammortizzarli" non vengono più fuori a getto dalle rotative della zecca.


Il tempo del tirare avanti è finito e si spera che lo sia anche per le altre riforme sul tavolo del governo, prima fra tutte la giustizia, che impatta non poco l’economia, ma si badi bene, non si tratta solo di accettare sacrifici: se la scommessa si rivelerà vincente, un’industria in ripresa significherà maggiore richiesta di lavoro e salari migliori, legati direttamente o indirettamente ai risultati della società.

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