Cultura e Spettacoli

L’atelier metafisico di Sironi

Forse soltanto Michelangelo concepì un’idea dell’arte e dei suoi scopi così alta, spirituale, sovrumana, come fu in Mario Sironi. E la desolata sensazione di sconfitta che necessariamente ne seguì, l’amara solitudine di una lotta che non poteva avere una reale soddisfazione, una compiuta realizzazione. Per l’uno, tiranneggiato dal ribollire dei linguaggi, tra i gorghi del nostro Rinascimento, per l’altro, stretto tra due guerre mondiali, e un ideale politico che si sfasciò da un giorno all’altro, lasciando solo rovine.
La tensione dell’ideale, in Sironi, preme come un dolore fisico. Con l’ossessiva determinazione di una vocazione, la scelta di un martirio. Sfociò naturalmente nella fiduciosa adesione al fascismo perché solo uno Stato, un popolo, la speranza di un futuro potevano accoglierlo. Dargli immagini e spazio, contenerlo. Educare, formare, far volgere gli sguardi verso un comune sentire. Sironi fu fascista perché sperò che la sua pittura potesse trovare quell’impero senza fine a cui voleva dare figure e simboli. Il fascismo in cambio gli dette poco o nulla. Non divenne accademico d’Italia, non fu mai ricco, ma, dopo il 25 aprile 1945, pagò duramente. Auspicava una pittura pubblica, monumentale, capace «di far cantare i muri». Fu troppo facile colpire la sua «retorica», dopo la guerra. Era cambiato il mondo, all’improvviso e per sempre, e quella che era stata la sua «fede» divenne indifeso bersaglio della vendetta.
Attivo per quasi un sessantennio, Sironi riuscì a essere sempre all’avanguardia, nello scorrere veloce dei movimenti novecenteschi, futurismo, metafisica, ritorno all’ordine. Michel Tapié lo citò tra i progenitori dell’informale. Eppure mantenne intatta la sua idea di un’arte classica, aulica, perenne, pubblica, in cui preme il mito, la spinta grandiosa di un linguaggio che s’informa in civiltà, millenario trapasso di segni e forme. Il mito suggerisce i calchi classici del linguaggio della storia, patrimonio del tempo e insieme programma, vivente, vibrante, rivoluzionario.
La prima mostra dedicata al solo periodo metafisico dell’artista nato a Sassari nel 1885, raduna una quindicina di dipinti e molti disegni («Sironi metafisico», Parma, Fondazione Magnani Rocca, fino al 15 luglio, a cura di Andrea Sironi) Sparsi nel tempo, ché il suo accostarsi alla metafisica fu, più che un’adesione, un’incursione libera tra i temi e le atmosfere ufficialmente nate a Ferrara nel 1917. Che divennero in lui una sorta di scenario permanente: gli archi, le ombre, i vuoti, i silenzi, i grigi. Esisteranno sempre nell’opera di Sironi, prima e dopo. Dalla densità tecnologica dell’Atelier della meraviglia, come s’intitolò un olio del 1919, dovevano scaturire figure sbozzate, desolazioni infinite, solitudini di periferie. Degli uomini e delle cose, delle speranze e delle biografie.

Come la silente Allieva del 1924, che è un annuncio e insieme un presagio, un capolavoro giovanile e un precocissimo testamento.

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