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«L’atletica in crisi si fa soffiare i talenti dalla pallavolo»

Il presidente Fidal Arese: «Il volley è più facile, correre o saltare è duro e costa fatica. Al nuoto invidio organizzazione e tecnici. Facciamo le miniolimpiadi»

nostro inviato a Goteborg
È rimasto incantato, eppoi aggrappato all’illusione di svegliarsi un giorno e scoprire che anche in Italia si può. Trecentomila spettatori nell’Ullevi stadion per sette giorni, spettacolo di tifo e di folla. «Questa è l’atletica!». Franco Arese lo dice con un sospiro liberatorio. Ha ritrovato il mondo per cui ha speso una vita in pista. Oggi è presidente federale di una nazione atletica ingrigita e tormentata dalla sua mediocrità, nonostante abbia conquistato qualche medaglietta.
Arese, perché non ci sono più grandi atleti?
«Perché non mettiamo piede nelle scuole da troppi anni, perché il basket e la pallavolo si sono presi i più bravi. Soprattutto la pallavolo: vedo gli schiacciatori e mi immagino potenziali saltatori in alto o in lungo. Sarebbero uno spettacolo. Hanno tutti il fisico ideale per le nostre discipline».
E, allora, perché hanno scelto la pallavolo?
«La pallavolo, da ragazzino, è un gioco: non c’è il crono, ti diverti e basta. A scuola è più facile scoprire i talentini. Loro, quelli della pallavolo, li vedono e li svezzano. Io ho tre figli e il secondo, Edoardo, giocava a pallone. Gli ho detto: lascia perdere. Un giorno, invece, viene da me l’allenatore e mi dice: lo lasci giocare, guardi come calcia. Chiaro? Vedono i ragazzi a dodici anni e studiano subito la qualità. Noi arriviamo dopo. Gli altri fanno la prima scelta».
Difetto vostro?
«Certo, magari ci mancano le società su tutto il territorio. Se uno non le ha, dove va? A scuola abbiamo perso un po’ il treno. Giocare a pallavolo è più semplice, non c’è il contatto fisico. L’atletica è impegnativa, bisogna andare al campo: per diventare un campione non c’è Natale o Pasqua, si corre e ci si allena con neve o pioggia. Per non parlare delle donne: per loro la pallavolo è lo sport più popolare».
Rimedi?
«Dobbiamo attirare i ragazzini, sfruttare i nostri campioni. Magari inventarci le miniolimpiadi. Dobbiamo trovare il modo di farli venire al campo. Noi siamo un po’ elefanti, la nostra distribuzione è capillare, ma complicata».
Eppure, ai suoi tempi, in Italia c’erano fior di campioni e l’atletica tirava.
«Ai miei tempi c’erano i campionati studenteschi. Io sono nato così. Era una battaglia fra istituti. Si andava al campo con le bandiere, ci si picchiava anche. Era fantastico: l’evento dell’anno. Poi ci sono stati i Giochi della gioventù, ma piano piano si sono spenti. Ora il Coni vuole ripristinarli. Speriamo!».
Questi europei non sono andati benissimo. Difficile promuovere il vostro sport...
«Però abbiamo Howe e Baldini: sarebbe un peccato non sfruttarli. Non è facile, dobbiamo muoverci. Forse, dopo Atene, non abbiamo esaltato abbastanza l’impresa di Baldini. Dovevamo gestire i cambiamenti interni. Howe potrebbe essere un grande trascinatore per i ragazzini. Ci conto».
Invidia qualcosa al nuoto?
«L’organizzazione e i tecnici, molto bravi. Inutile stare a raccontarsela. Però, per loro è più facile gestire la situazione. Fanno tutto in piscina. Noi dobbiamo diversificare per ogni specialità: salti, corse, lanci. Però sono stati bravi a tener botta con le nazioni più forti. E quando ti arriva il successo, la gente ti vien dietro. Oggi le piscine sono piene».
Allora rimboccatevi le maniche...
«Appunto. Ma abbiamo bisogno dell’aiuto delle istituzioni. Tutti ci dicono: siete la regina degli sport. Bene, dateci una mano. Serve un lavoro lungo con progetti mirati. L’assessore di Torino è rimasto incantato dalle minipiste, dai minipercorsi che gli svedesi hanno organizzato fuori dello stadio. Mi ha detto: io metto le attrezzature e tu i tecnici. Proviamo».
Tanti preferiscono gli sport di squadra...
«Divertono di più. L’atletica ad alto livello è dura. Nelle città i bambini crescono come polli d’allevamento, non sollecitano più tendini, articolazioni. Noi, da piccoli, eravamo abituati a ben altro: come i keniani. Era un modo per creare campioni».
Tutti li creano, noi no. Che cosa fare?
«Il grande aiuto deve venire dalla scuola: con finalità precise, sennò buttiamo i soldi. Da soli non ce la faremo mai».
Sos, eppoi...
«Intanto manteniamo bene i pochi campioni che abbiamo, poi lavoriamo sui giovani, infine cerchiamo tecnici preparati ed anche ben pagati.

Perché, questo è chiaro, nulla ti arriva gratis».

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