Adesso tutti s’indignano. Non con gli indignados, ma con chi ha rovinato la festa.
È da troppi anni che va avanti questa storia: i partiti della sinistra si mettono alla testa di cortei da cui poi regolarmente escono, come creature strane, black block, dall’aria truce, anarchici con la bottiglia incendiaria facile, incappucciati che non vogliono cambiare il mondo ma solo distruggerlo, teppisti che verrebbero guardati con sgomento anche dagli hooligans.
È una storia che si ripete sempre uguale: la sinistra sobilla la piazza, poi la piazza esplode, va per conto suo, travolge i ragionamenti e anche le persone. È un film, senza andare lontano, che abbiamo già visto al G8 di Genova. C’erano le tute bianche e c’erano le tute nere, c’erano i manifestanti pacifici e quelli arrabbiati, anzi indemoniati che volevano solo manovrare il piccone. Era dieci anni fa e dieci anni dopo siamo allo stesso punto: le vetrine infrante, le fiamme, i feriti, gli assalti e gli agguati.
Oggi, come allora, si dice che gli indignados non hanno niente a che fare con i facinorosi. E che non si può buttare via la protesta per colpa della violenza. Tutto vero, ci mancherebbe. Però qualche domanda il popolo democratico di chi s’indigna e i suoi leader dovrebbero farsela. Perché l’odio emerge sempre dalla pancia di queste manifestazioni, si appoggia questi happening, li utilizza come paravento e salvacondotto. In fondo il popolo che protesta è il grembo che nutre e infine nasconde chi si è sporcato le mani.
C’è sempre una zona rossa da conquistare e alla fine c’è anche qualcuno che militarizza le manifestazioni, sfruttando la piazza come fondale che tutto copre, tutto assorbe, tutto tollera. È la vecchia, vecchissima storia dell’album di famiglia. Le Brigate rosse appartenevano a quell’album ma per anni, per troppi anni, furono considerate come marziani. O come fascisti più o meno travestiti. Basta appiccicare un’etichetta e il gioco è fatto. Basta una condanna, a disastro compiuto, e la coscienza va a posto come una pallina di flipper. Ma non è così: certe eruzioni vanno fermate prima, prima che avvengano, certi soggetti vanno isolati, certe parole vanno pronunciate prima e altre parole non devono mai essere scandite. Da mesi, anzi da anni, il lato sinistro dello schieramento politico è diventato un coro che ripete sempre gli stessi ritornelli: il paese è allo sbando e la colpa è di Berlusconi e solo sua e non importa se tutto il mondo brucia, il governo è delegittimato, anche se ha i voti della maggioranza eletta dai cittadini, il premier è una vergogna vivente e si deve dimettere anche se non si capisce dove sia l’alternativa. L’opposizione evoca addirittura l’Aventino, che fu una scelta drammatica e fallimentare, e trasforma la storia in farsa.
Risultato: la sinistra perde due volte in due giorni. La prima sberla in aula con il governo che tiene, la seconda per le strade con la piazza che sfugge ai suoi strateghi. La sinistra perde la conta delle mani alzate e perde anche la gara a chi urla di più. Perché c’è sempre qualcuno più duro, qualcuno che va oltre, qualcuno che non sa o non vuole fermarsi.
Certo che non si possono mettere sotto lo stesso ombrello i ragazzi che se la prendono ironicamente con le banche e i loro coetanei che conoscono solo la fionda e il manganello. Ma occorre distinguere: le responsabilità si prendono prima. Non dopo. È successo a Genova, è accaduto con i tanti scontri fomentati dai centri sociali e accade con inquietante regolarità davanti ai cantieri dell’Alta velocità.
I violenti vanno isolati in un’Italia che invece, vedi Genova, ha quasi santificato quelle ore di guerriglia e sputato sulle forze dell’ordine che l’ordine cercavano di tenerlo. Nichi Vendola se la cava fotografando le due manifestazioni: «Una meravigliosa e coinvolgente, un’altra organizzata da una minoranza di teppisti e black bloc». Va bene, ma si dovrebbe comprendere perché la seconda giochi ambiguamente a nascondino con la prima e ne sfrutti debolezze e slanci, finendo con l’oscurarla.
Oggi, per fortuna, non c’è stato il morto, ma nei giorni scorsi Antonio Di Pietro il lutto l’aveva spensieratamente evocato con una frase che suonava così: Berlusconi se ne vada a casa prima che ci scappi il morto. Meglio, molto meglio riflettere prima.
Un ulteriore oltraggio. Se si supera il segno, si trova poi sempre qualcuno che va fino in fondo.
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