Roberto Scafuri
da Roma
Sono giorni amari, i più amari della mia vita politica. Piero Fassino abbraccia lennesima croce del suo tormento politico. Apre con le parole della sofferenza i lavori della direzione ds, e prosegue seguendo passo passo il canovaccio imposto dal documento che sarà votato (allunanimità) alla fine. La trama è scontata, non cè nessun duello perché cè già stato nella riunione notturna dellufficio di presidenza, e adesso si tratta soltanto di rilanciare limmagine di una «classe dirigente allaltezza del compito di guidare il Paese». Per questo la riunione si tiene a porte aperte e qualche giornalista riesce persino a sedere tra gli 87 dirigenti. Sul palco, a tener compagnia agli «imputati» DAlema e Fassino, il mite Giorgio Benvenuto, Marina Sereni e Pasqualina Napolitano. In prima fila, il tesoriere Sposetti, che più tardi apostroferà ironico due esponenti della sinistra interna: «Begli amici, siete...». La risposta è goliardica, non malevola: «Caccia i soldi, Sposetti!...».
Ma daltronde, come dirà più tardi in altro contesto il presidente DAlema, «nessuno di noi è amico di nessuno». Gli stracci sono volati appunto nottetempo, DAlema ha subito gli attacchi più duri, Fulvia Bandoli è stata la più diretta nelle accuse, ma alla fine la «quadra» è stata trovata come nelle migliori tradizioni del Partitone che fu. «Nei momenti difficili ci ricompattiamo, sempre», gioisce uno della vecchia guardia. Le elezioni politiche sono alle porte, ricorda anche il segretario e la proposta prodiana di essere difesi dallo scudo di un Partito democratico qui non ha corso legale. Il partito ha bisogno di tirar fuori artigli e attributi, di respingere l«aggressione che la destra ha scatenato contro di noi». È questo il punto di partenza della relazione fassiniana, come del documento unitario. Dove è scritto: «Respingere la vergognosa aggressione con cui si tenta la delegittimazione morale e politica dei Ds e dei suoi dirigenti». Al centro del bersaglio, fin troppo scontato, cè il Giornale della famiglia Berlusconi, «reo» di «campagne vergognose» e anche di qualsiasi imprecisione giornalistica, comprese quelle comparse su altri fogli. Tutto in un unico calderone: Telekom Serbia e lomonimia di tal Bersani; la barca di DAlema e i 50 milioni di Consorte che «sarebbero una fonte di finanziamento occulta e illegale dei Ds», sindigna il segretario.
A che cosa serviva (o sarebbe servito) quel bel gruzzoletto nessuno però se lo chiede. Forse Consorte meditava lacquisto di un atollo del Pacifico o dellintero stato del Burundi. Chissà. Eppure, si contraddirà successivamente DAlema, «Consorte non è il compagno G. (Greganti, ndr), non è un emissario del partito, ma uno dei più validi manager di questo Paese ed era presidente dellUnipol ancor prima che io fossi segretario!...». Insomma, questo monumento duomo metteva da parte per costruirsi una vecchiaia serena assieme ai suoi cari. Ma se in DAlema prevale la difesa orgogliosa dellidentità del partito, nel sofferente Fassino no. Il segretario riconosce il «turbamento» dellelettorato e vuole rincuorarlo. «Questa non è Tangentopoli due, non abbiamo conti in Svizzera, siamo gente perbene, il partito non è inquinato, possiamo pure sbagliare...». Parla della sua celebre telefonata, «puramente informativa» e aggiunge che «non se ne troverà mai una ad altri protagonisti di queste vicende...». Si trattava solo di rivendicare «per Unipol gli stessi diritti, perché il movimento cooperativo non fosse figlio di un dio minore... E il tifo è unespressione di sentimento».
Per lunghi tratti del dibattito sembra un San Piero Decollato, il povero segretario. Occhi ispirati volti al soffitto e parole di sofferto rammarico. Ammette la «nostra insufficienza», la «nostra sottovalutazione». Di sicuro «qualcosa non ha funzionato», e ci sarà stato persino «un allentamento del rigore morale». Però «i Ds sono una forza sana, la lezione di Berlinguer vive in noi e non abbiamo smarrito la nostra identità».
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