L’autogol dell’ex pm Mette le mani avanti ma s’incarta da solo

Il signor Antonio Di Pietro ieri ha inondato le agenzie di stampa e il suo blog di parole relative a un presunto dossier confezionato non si capisce bene da chi e venduto a non si capisce quale «solito giornale» (con la «g» minuscola). Un dossier-bidone, dice l’ex pm. Analizziamole insieme queste parole.
Di Pietro: «C’è un dossier nel quale si vorrebbe far credere, utilizzando alcune foto del tutto neutre, che io sia o sia stato al soldo dei servizi segreti deviati e della Cia per abbattere la Prima Repubblica perché così volevano gli americani e la mafia».
Senza scomodare l’infinita querelle sulla rapida ascesa di Tonino da semplice commissario di polizia a magistrato di punta del pool Mani Pulite, oppure i suoi trascorsi in uffici della Ustaa (ufficio di sorveglianza tecnica di armamento aeronautico, su cui si sofferma con dovizia di partcolari Filippi Facci nel suo ultimo libro), nessuno ha parlato di Di Pietro e la Cia, se non, ieri, lo stesso Di Pietro. A dir la verità qualcuno c’è che sul punto ha sollevato più di un interrogativo a cui Di Pietro non ha mai dato risposte e neppure minacciato querele. È Francesco Pazienza, celebre factotum dei Servizi, citato in ogni mistero d’Italia. È lui a raccontare di quando, giovane sostituto procuratore a Bergamo, Di Pietro fu sorpreso a muoversi con fare furtivo alle Seychelles sulle tracce proprio del fuggiasco Pazienza. Interpellato dal Giornale, il «faccendiere» ricorda: «Ho detto e scritto che lavorava per i Servizi nel mio libro il Disubbidiente e non mi ha mai querelato, bisognerebbe chiedere qualcosa all’allora giudice Sica. È vero. Lo beccai alle Seychelles, tramite i Servizi locali con i quali collaboravo. Chiedeva in giro di me insieme a una donna rimasta a tutt’oggi misteriosa, e non era la moglie. Si muoveva in modo scaltro. Frequentava brutti ambienti, faceva anche le foto da dietro i cespugli. Era un periodo particolare nel quale la Cia provava a buttar giù l’allora presidente, e fu proprio lui, il presidente, a segnalarmi quest’uomo misterioso che si muoveva come James Bond».
Di Pietro: «Da giorni si aggira per le redazioni dei giornali e nel circuito politico della Capitale uno strano personaggio che sta offrendo a buon mercato un dossier di 12 foto che mi ritrarrebbero insieme indovinate a chi? No, niente escort. I miei interlocutori sarebbero, anzi sono, il colonnello dei carabinieri Mori ed il questore della polizia di Stato, Contrada. Insieme a loro nella foto ci sarebbero anche alcuni funzionari dei servizi segreti».
Sullo strano personaggio che frequenta le redazioni, non possiamo essere utili. Quanto alle foto, sì. E non perché qualcuno sta pensando di piazzarle al solito giornale (con la «g» minuscola) bensì perché l’avvocato Giuseppe Lipera, battagliero difensore di Contrada, ne conferma l’esistenza al Giornale: «Sì, la foto c’è. Antonio Di Pietro è seduto accanto a Contrada in una tavolata dove ci sono molti ufficiali, in divisa e no».
Di Pietro: «Ne hanno acquistate 4 di foto e prima delle elezioni, le pubblicheranno. Questi scatti dovrebbero servire per veicolare il seguente teorema: siccome Mori è finito indagato per la nota vicenda delle agende rosse e Contrada è stato condannato per fatti di mafia, Di Pietro ha avuto a che fare, pure lui, con queste vicende».
Mario Mori, contattato dal Giornale, non sa se ridere o piangere: «Non ho mai avuto a che fare con questo signore, Di Pietro intendo. Escludo di esser stato mai sono stato fotografato a un pranzo con Di Pietro e con Contrada». Mori, a dirla tutta, con Di Pietro ci ha avuto a che fare al Ros, seppur attraverso il fidato capitano De Donno, quando interrogarono l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, nel carcere di Rebibbia, circostanza documentata ma incautamente smentita da Di Pietro ad Annozero («Mai ho avuto a che fare con Ciancimino, me lo ricorderei»). Quanto poi a Mori indagato per la storia della scomparsa dell’«agenda rossa» di Paolo Borsellino, Tonino si becca una violenta smentita dal legale di Mori, Pietro Milio: «Lo stress della campagna elettorale potrebbe aver causato al senatore Di Pietro un evidente stato confusionale tenuto conto che il generale Mori è mai stato indagato per l’agenda rossa come egli avventatamente sostiene».
Di Pietro: «Siccome poi c’erano anche funzionari dei Servizi insieme a costoro, vuol dire che Di Pietro stava macchinando con qualche potenza straniera, se non addirittura con la mafia. La verità più lineare e banale: all’epoca io ero un magistrato inquirente che svolgeva le indagini, chiedeva arresti e poi li faceva eseguire. Indovinate da chi? Dai carabinieri e dalla polizia di Stato, ovviamente. Il colonnello Mori e il questore Contrada erano appunto esponenti di primo piano dei predetti organi ed è sicuramente capitato - anche se io ora, a distanza di quasi vent’anni, non ricordo tutte le circostanze - che a volte abbia chiesto anche agli uffici da loro diretti, oltre ad una miriade di altri, di svolgere accertamenti e di eseguire provvedimenti (…) Interloquire con un questore o con un colonnello dei carabinieri addetti alle investigazioni è il minimo che poteva, e può, fare un magistrato che, come me, stava svolgendo le indagini di Mani Pulite. Non potevo certo sapere i guai che sarebbero loro capitati anni dopo. Essi all’epoca erano solo servitori dello Stato, non delinquenti».
Allora. Per prima cosa bisognerebbe capire chi fossero i funzionari dei Servizi segreti (di cui parla Di Pietro) che erano allo stesso tavolo dove Tonino e Contrada sedevano vicini, in compagnia dell’allora capo del reparto operativo dell’Arma, Tommaso Vitaliano. Quanto all’essere magistrato inquirente che svolgeva indagini, chiedeva arresti e poi li faceva eseguire, nulla questio. Il problema è che le foto di cui Di Pietro teme evidentemente la divulgazione, e di cui l’avvocato di Contrada conferma l’esistenza, si rifanno a un periodo molto particolare: quello in cui Contrada era il numero due del Sisde, e non era un questore qualsiasi con cui rapportarsi per concordare retate di indagati di polizia giudiziaria. Ma quel che è più grave è che le fotografie, sempre secondo il legale di Contrada, si rifanno al 15 dicembre del ’92, e per chi non lo ricorda, di lì a poco Contrada verrà arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa. Domanda: Di Pietro avvertì il diretto superiore Francesco Saverio Borrelli di quel pranzo? Domanda successiva: che cosa sarebbe successo, a quei tempi, se fossero uscite fuori le fotografie di quell’incontro, certamente casuale, fra Di Pietro e Contrada? Perché in tredici anni Tonino non ne ha mai fatto cenno limitandosi ad attaccare il malconcio e vecchio Contrada che a suo dire meritava la galera e non la grazia come in tanti chiedevano? Quanto a Mori – aggiunge l’avvocato Milio – «non ha intrattenuto alcun rapporto col predetto Di Pietro che si riferisse all’attività dei Servizi». Ma c’è di più. Preso atto della brutta figura fatta, Di Pietro è corso a ringraziare l’avvocato Milio per la smentita.
Di Pietro: «Le parole dell’avvocato Milio confermano che non ho mai avuto nulla a che fare con Mori, sia che io non abbia collaborato con lui per ordire complotti coi servizi. Se poi è lo stesso Mori a escludere questa eventuale collaborazione, è ancora peggio perché oggi si vuole ribaltare la verità, inserendo me e il colonnello Mori in una fantomatica lobby per ammazzare la Prima Repubblica».
Tonino fa tutto da solo. Se la canta e se la suona. Tira in ballo Mori e si compiace con l’avvocato di Mori perché non è vero niente. Pazzesco.
Di Pietro: «Quanto a Mori e alle agende rosse volevo dire che era un approssimazione che voleva semplicemente rendere mediaticamente percepibile le questioni giudiziarie che lo riguardano in relazione alle vicende palermitane».
Un’accusa così grave, così campata per aria, era solo un’approssimazione.
Di Pietro: «Interloquire con un questore o con un colonnello dei carabinieri addetti alle investigazioni è il minimo che poteva, e può, fare un magistrato che, come me, stava svolgendo le indagini di Mani Pulite».
Non ci piove. Quel che però ancora non è chiaro è se Di Pietro abbia ad esempio mai interloquito con il giudice Paolo Borsellino a proposito del progetto di attentato in loro danno progettato dalla mafia e segnalato, a entrambi (checché ne dica Di Pietro ad Annozero) dal Ros. Perché solo Di Pietro venne mandato all’estero (Nicaragua o Costarica?) con un passaporto falso intestato a tal Marco Canale mentre Borsellino rimase a Palermo e venne ammazzato. Perché non ha mai replicato a due dei 28 interrogativi sollevati il 9 novembre scorso dal giornalista Alberico Giostra autore del libro Il Tribuno a lui dedicato («In che rapporti era con Contrada? È vero che lei ha fatto parte della scorta armata del generale Dalla Chiesa?).

Perché, per chiarire a tutti questi punti, anziché mettere le mani avanti e denunciare complotti, Di Pietro non si guarda indietro e va a parlare coi magistrati che indagano sul ruolo dei Servizi nelle stragi del ’92 e che, incredibile a dirsi, hanno ripreso a indagare proprio su Contrada, quello fotografato insieme a lui pochi giorni prima dell’arresto?

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