Dante Montanari è un nome che oggi non dice niente a nessuno. È un artista che ha fatto parte del Novecento italiano e di quel movimento, o meglio di quel clima, che Bontempelli chiamò Realismo magico: uno dei tanti, che poi sono stati dimenticati. Eppure, a guardare lapprofondita antologica che gli dedica, fino all8 dicembre, il Teatro Sociale di Bergamo, a cura di Marilisa Di Giovanni e Chiara Pecco, ci si rende conto che quella dimenticanza è stata ingiusta.
Grande disegnatore, costruttore di forme e di volumi, Montanari ha dipinto un mondo solido e concreto, contrastando però quella sua concretezza tutta marchigiana (era nato in provincia di Ascoli) con un senso trasognato di stupore, di silenzio, di immobilità misteriosa. Ma lasciamo parlare lui stesso: «Sono nato a Porto SantElpidio, da padre romagnolo e madre marchigiana. Infanzia e adolescenza meravigliose a contatto con i figli dei pescatori, protagonisti, tutti allo stesso modo, di giochi spericolati e di canagliate da casa di correzione. Mi trasferii a Milano con la vaga intenzione di frequentare laccademia: intenzione immediatamente respinta, preferendo la libertà dellautodidatta. Lansia maggiore che creavo in famiglia era determinata da fughe da casa... Partito per la guerra 1915-1918, ho toccato tutti i fronti, dalla Valsugana al basso Isonzo».
Come si vede, siamo di fronte a un artista tuttaltro che accademico, che si è formato più a contatto con la vita che con il cavalletto. E qualcosa di quella lezione non libresca rimane nelle sue figure, massicce e ben poco letterarie, oppure nei suoi paesaggi, tutti dipinti a Bergamo, dove si trasferisce alla fine della guerra, e dove rimane fino al 1939, quando si sposta a Milano.
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