L’avvocato-pittore che usa l’aratro come un pennello

Usa il trattore al posto della tavolozza. L’aratro è il suo pennello. Ne vengono fuori quadri circa centomila volte più grandi delle tele che di solito dipinge con oli, tempere e colori acrilici. L’unico difetto, o forse si tratta del loro pregio, è che poi spariscono in un paio d’ore, quando va bene un paio di settimane, o anche nel giro di appena cinque minuti se arriva un temporale, lasciando una labile traccia solo sui giornali: il suo ritratto agreste di Barack Obama, giudicato dal Corriere della Sera «la miglior opera di land art» e per il quale ha ricevuto una lettera di ringraziamento dallo staff del presidente americano, è apparso sul New York Times e sul San Francisco Chronicle, è stato pubblicato da giornali cinesi, australiani e brasiliani, è finito nei notiziari della Bbc e della Cnn.
Un Fiat 1300 Dt da 150 cavalli imbrattato di fango è tutto quello che serve a Dario Gambarin per fare il giro del mondo. Di professione dovrebbe esercitare come avvocato civilista nel foro di Bologna. In realtà sei o sette volte l’anno si trova molto più a suo agio sulla ventina di ettari di terra che da giovane arava a Castagnaro, nella Bassa veronese, dov’è nato 53 anni fa. È qui che ha conquistato la scena internazionale grazie al bivomere, un aratro doppio accoppiato al trattore. Entra in un campo dopo la mietitura e lo solca avanti e indrè per circa tre ore, fino a disegnare un’enorme opera d’arte visibile soltanto dal cielo. Poi fa alzare in volo un aereo da turismo che la fotografa. Tutto si gioca sul contrasto che già aveva notato Alessandro Manzoni nel quarto capitolo dei Promessi Sposi: «E la terra lavorata di fresco spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza». Quando il sole fa evaporare l’umidità delle zolle rovesciate, il disegno svanisce.
L’ispirazione per le sue gigantopitture di solito a Gambarin viene suggerita dall’attualità: un Pinocchio con l’indice di Borsa che si abbatte sulla punta del naso bugiardo, sotto il quale figurano i simboli di dollaro, sterlina, euro e yen; L’urlo di Edvard Munch per l’alluvione in Veneto; la mela morsicata con la celebre frase di Steve Jobs, «stay hungry, stay foolish», restate affamati, restate folli, per la morte del fondatore della Apple («ha cambiato il mondo e il modo di pensare»); Nelson Mandela il giorno della finalissima dei Mondiali di calcio 2010 in Sudafrica («è stato il vincitore morale»). Ma anche un enorme Topolino: «Perché? Perché è Topolino. Non c’è altro da aggiungere».
«Performance», le chiama l’avvocato. A giudicare dal curriculum, tutta la sua vita è una performance. Fino ai 18 anni ha aiutato nei campi il padre Pierino, agricoltore. Poi la fuga da Castagnaro: «Come evadere da una prigione. Certi nebbioni, d’inverno, da toglierti la vista. Sono scappato per vedere com’era fatto il mondo». La laurea in giurisprudenza a Bologna: «La famiglia mi passava il minimo indispensabile per vivere, però a me piacevano le belle auto, i bei vestiti, le belle ragazze. Mi sono pagato gli extra cantando e suonando nei pianobar fra Italia, Francia e Germania fino al 1993. Poi mi è andata via la voce». La seconda laurea al Dams con una tesi su Arte e psicopatologia, che lo ha portato per un anno a studiare i pazienti nel manicomio di Bologna. Poi la specializzazione in relazioni industriali e del lavoro, sempre all’Università di Bologna, col professor Enzo Spaltro, l’autore di Test su Raiuno. Quindi il diploma di belle arti all’Accademia Clementina e un anno da ricercatore all’University of California di Los Angeles. Infine l’abilitazione in psicologia e psicoterapia, dopo aver frequentato un corso col professor Jeffrey Zeig alla Milton H. Erikcson foundation di Phoenix, in Arizona, ciò che lo rende il compagno ideale della psicoterapeuta d’origine tedesca con la quale convive nel capoluogo emiliano. Dimenticavo: ha anche interpretato il musicista Francesco Piantanida in Noi tre del regista Pupi Avati, il quale anni dopo l’ha rivoluto per una particina in altri due film, Il papà di Giovanna e Una sconfinata giovinezza, e gli ha dedicato la recensione critica più lusinghiera: «Dario è una persona straordinaria perché usa l’aratro come strumento della propria creatività. La sua è un’operazione in armonia con l’ambiente e non finalizzata a scopi commerciali, ma che obbedisce soltanto alla propria urgenza creativa. Un’iniziativa geniale».
È evidente che codici e pandette a Gambarin andavano molto stretti. Infatti da una decina d’anni ha praticamente abbandonato la toga per dedicarsi anima e corpo alla pittura. Ci vuole un fisico bestiale per cimentarsi nell’arte della terra: «Posso agire solo d’estate, a fine giugno o a metà settembre. Nella cabina del trattore, priva di aria condizionata, si superano i 40 gradi. La perdita di liquidi è repentina. Ogni volta se ne vanno in sudore due chili di peso». Un altro chiletto deve averlo perso con la sua ultima performance, di tutt’altro genere, andata in scena nel teatrino settecentesco di Villa Mazzacorati: con la mano sinistra dirigeva un sestetto d’archi che eseguiva brani di Bach, Haendel e Vivaldi e intanto con la destra dipingeva un ritratto di Mozart, mentre l’attrice Eva Robin’s leggeva le lettere del grande salisburghese. «Bacchetta e pennello, un trip senza bisogno di assumere allucinogeni». Ma guai a dargli dell’avanguardista: «L’arte moderna si chiama così perché ben difficilmente diventerà antica». Non è sua, bensì di Nikita Kruscev. Però è in tono col personaggio: si sente predestinato all’immortalità.
Come viene in mente a un avvocato di convertirsi alla land art?
«È successo per caso. A Monaco di Baviera ho visitato la mostra di un artista. Campi disegnati mediante la semina: chiama un tecnico col Gps, picchetta il terreno, mette a dimora varie essenze arboree, aspetta che crescano fino a formare un’immagine. Ho pensato: bella fatica, così sono capaci tutti».
Ha voluto andare oltre.
«Un sabato pomeriggio d’estate ho fregato il trattore a mio padre, approfittando del fatto che si era recato per due giorni al mare ai Lidi ferraresi, e ho fatto con l’aratro un enorme volto femminile. La domenica, tornando a casa, papà ha visto dal ciglio della strada la terra smossa. “Che cos’è successo? Chi è entrato nel campo?”, s’è arrabbiato. Ho dovuto confessare. Mi ha spedito subito a livellare il terreno. Solo quando ho visto il filmato che avevo fatto girare dall’alto al pilota di un Cessna, alzatosi in volo dall’aeroclub di Montagnana, mi sono reso conto di quello che avevo realizzato. Ancora oggi, quando salgo sul trattore, è una sfida tra immaginazione e creazione».
Almeno ha mostrato il filmato a suo padre?
«Sì, ma lui, invece di guardare la mia opera d’arte, scrutava solo com’erano tenuti i campi del vicino».
Quanto misurano le opere?
«Da un minimo di 15.000 metri quadrati fino a 60.000. A volte occupano tre campi. Lì la cosa si fa difficile: fra una proprietà e l’altra di solito c’è un fosso o un sentiero».
Perché le firma «AD» anziché «DG»?
«Una sigla di comodo. Non esiste trattore al mondo con un angolo di sterzata che consenta di tracciare una “G”».
Mai sacrificato coltivazioni all’arte?
«Scherza? Intervengo solo su terreni brulli, prima della semina. I periodi utili sono fine giugno, conclusa la mietitura del grano, e metà settembre, dopo la raccolta del mais. È capitato che alle 6 di mattina intervenissi io e alle 6 di sera mio cugino avesse già distrutto tutto seminando 40.000 metri quadrati di soia».
A me pareva che il ritratto di Obama fosse tracciato nel verde.
«No, no. In quel caso era stato tolto l’orzo da due settimane, era piovuto molto e avevano messo radici le erbacce».
E se sbaglia manovra col trattore?
«Tutto finito. Non posso certo correggere richiudendo il terreno. Devo andare a colpo sicuro. E non fermarmi mai, altrimenti perdo le coordinate che ho nella testa».
Ma come fa a essere certo di seguire la mappa mentale?
«Non sono mai sicuro. Ci provo. Non posso vedere quello che sto facendo. Lavoro col terzo occhio, la forza infinita dell’immaginazione. Cado quasi in trance. Nessuno deve interrompermi, nessuno deve farmi domande. Il trattore s’impenna come un cavallo imbizzarrito: bisogna capirlo, è costruito per andare dritto. Non posso deviare se la terra è dura. Ho già spaccato un paio d’aratri. Ma non mi sono mai fermato. Neanche davanti ai fulmini di Giove».
Che significa?
«Mentre disegnavo Obama per il G8 dell’Aquila, è venuto su un temporale senza pioggia, con fulmini e saette da far paura. Una tempesta di sabbia. Non vedevo più nulla. Avevo chiesto a pilota e fotografo dell’aereo di spedirmi un Sms qualora avessero riconosciuto il profilo di qualcuno nel campo. Quando sul display del cellulare mi è apparso il messaggio “Obama. Splendido!”, ho cominciato a saltare di gioia come un bambino».
Il volo di ricognizione chi lo paga?
«Chi vuole che lo paghi? Io. E dal decollo all’atterraggio passa almeno un’ora e un quarto. Son soldi».
Che arte è se per fruirne serve il brevetto da pilota?
«È l’arte per l’arte. La sublimazione».
Non può ricavarci denaro.
«Mi basta avere estimatori come Pupi Avati, Laura Morante, Christian De Sica, Alessandro Bergonzoni, Sarah Jane Morris, Andrea Mingardi».
Non le dispiace che le sue opere scompaiano?
«No, perché il compito della terra è produrre, dar da mangiare. Se poi sfama per qualche ora anche lo spirito, tanto di guadagnato. Ma la terra dura più dell’arte».
Proprio come dice in Via col vento il padre di Rossella O’Hara, mostrando alla figlia una zolla della tenuta di Tara: «La sola cosa per cui valga la pena di lavorare, di lottare, di morire. Perché è la sola cosa che duri».
«Chi ama la terra, soffre nel vedere com’è trattata l’agricoltura oggi in Italia. Credo d’aver rivalutato il paesaggio».
E i contadini di Castagnaro che dicono delle sue performance?
«Alcuni ne vanno fieri. Su tutti gli altri non mi pronuncio. Del resto, quando vai fuori dal seminato... E io ci sono andato, anche troppo. Però almeno una telefonata di ringraziamento dal sindaco o dal Comune l’avrei gradita. In fin dei conti se il mondo s’è accorto che esiste Castagnaro è stato grazie a me».
Certo che da queste parti avete un rapporto strano con la campagna: Gianfranco Stevanin ci seppelliva le prostitute dopo averle strangolate, lei la violenta con l’aratro.
«Stevanin è di Terrazzo. Anche se sono appena 6 chilometri in linea d’aria, c’è l’Adige di mezzo. E ai miei tempi non c’era neanche il ponte».
Visto che se la cava bene anche con tele e pennelli, non le conveniva concentrarsi sulla pittura?
«L’aratro è nato 6.000 anni fa. È stato il primo strumento d’arte nella storia dell’umanità. In precedenza gli uomini erano costretti ad andare a caccia tutti i giorni. Solo l’agricoltura ha consentito loro di trasformarsi in popolazioni stanziali e di trovare il tempo per coltivare anche la bellezza. Come l’aratro è fondamento di tutte le arti, così la mia arte ha ritrovato nell’aratro le sue fondamenta. L’arte moderna è sovrastrutturata, non dà più spazio al talento».
Perché non è diventato agricoltore, se ama così tanto la terra?
«Perché mi sento diverso e penso di dover dare qualcosa di diverso».
Come mai i giovani non vogliono più fare questo mestiere?
«È faticoso, non è remunerato. Che senso ha coltivare kiwi se te li pagano 20 centesimi al chilo?».
La sua land art non vale neanche quelli.
«Sul rapporto fra arte e denaro le racconto una storiella che risale alla Cina del XIII secolo. Un ricco mandarino vuole adornare la sua magione col dipinto di un granchio. Perciò convoca il miglior pittore in circolazione e gli chiede: “Che ti serve per disegnarmi un granchio?”. L’altro gli risponde: “Una casa con servitori a mia disposizione e due anni di tempo”. Perplesso, il mandarino acconsente. Passano due anni e il quadro non è pronto. Ne passano tre, niente. Quattro, niente. Non c’è verso di vedere il dipinto. Trascorsi sette anni, il committente è infuriato: “Se non mi consegni subito l’opera, ti faccio ammazzare”. Al che il pittore prende una tela e in 15 minuti disegna il granchio, il più bello che si sia mai visto. “Ma come? Io ti mantengo nel lusso da sette anni per avere il mio granchio e tu lo dipingi in appena un quarto d’ora?”, urla il mandarino. E l’artista: “Sì, ma sono sette anni che mi alleno”».
Ho visto che per salutare il 2012 ha tracciato nel campo un extraterrestre.


«Era un modo per ironizzare sugli apocalittici che temono la fine del mondo profetizzata dai Maya. Comunque, se arrivano gli alieni, io gli do il benvenuto».
Quindi la terra non finirà il 12-12-2012.
«Non ne sono così sicuro».
(581. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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