L’ebreo che sognava di abbattere Wall Street

L’autobiografico e commovente romanzo di formazione di Michael Gold: un feroce attacco contro il capitalismo

Morì nel 1967, alla vigilia del ’68, di quella rivolta dove, dopo tanta attesa, avrebbe visto avvicinarsi, se non realizzata, la sua attesa messianica: «Oh, rivoluzione dei lavoratori, tu hai portato la speranza nel ragazzo solitario, sull’orlo del suicidio, che io ero allora. Tu sei il vero Messia. Quando verrai, raderai al suolo l’East Side, e farai sorgere al posto suo un giardino per gli spiriti fraterni». Perché alla Rivoluzione, quella con la maiuscola, Michael Gold lavorò tutta la vita, fin da quando era un ragazzo arrabbiato con la storia e con l’America e si chiamava ancora Irwin Granich. Uno dei milioni di ebrei che erano arrivati nella Terra Promessa salvo scoprire presto che New York e le altre città del nuovo mondo più che alla terra di Sion somigliavano all’inferno dei cristiani: «Null’altro che pietra. È una seconda Pompei; con la differenza che sette milioni di creature piene d’amore per la terra sono condannate a vivere per le strade di morta lava».
L’America, la New York, il Lower East Side in cui crebbe era un miscuglio di razze e di miseria, di religioni e disperazione, di violenza e di passioni che al cinema ha saputo capire soltanto Sergio Leone in C'era una volta l'America e che, mezzo secolo prima di lui, Michael Gold raccontò in Ebrei senza denaro, scritto negli anni della Grande Depressione, pubblicato negli Stati Uniti nel 1930 e in Italia un’unica volta, soltanto nel 1934, prima che oggi sia stato riscoperto da Baldini Castoldi Dalai (pagg. 290, euro 16,50). Un libro che, nella tradizione della letteratura ebraica, è l’autobiografico e commovente romanzo d’iniziazione del protagonista, ma anche il rabbioso strumento con cui un giovane ebreo in rivolta contro il Dio dei suoi avi e l’Ordine dei suoi genitori compie l’inevitabile parricidio con cui taglia ogni radice, cerca di distruggere una millenaria tradizione per costruire un mondo nuovo.
Difficilmente in quegli anni, persino nella più ideologizzata letteratura di partito, perfino nelle più grottesche caricature si è letta una simile esplosione di antisemitismo, come quella in cui il giovane protagonista descrive il suo maestro di Talmud: «Reb Moisha aveva una faccia cerea e scarna di cadavere, incorniciata da una barba nera come l'inchiostro, e sormontata da una papalina. I suoi occhi scintillavano e vagavano instancabili come quelli di un orco affamato di sangue di ragazzini».
Perché gli ebrei che Gold racconta, il popolo da cui nasce e di cui si porta il sangue, diventano il simbolo di ciò che bisogna rifiutare, l’espressione di quel capitalismo in cui, se non si riesce a primeggiare, si diventa vittime. E che Gold combatterà per tutta la vita, come membro del Partito Comunista, come giornalista, come autore di libelli, come scrittore di un unico libro che, in quegli anni Trenta maledetti e bellissimi, sarà una sorta di popolarissimo Manifesto rivoluzionario, la denuncia di un sistema spietato, il preannuncio della rivoluzione da parte di chi aveva sostituito al Messia atteso per millenni dal suo popolo un nuovo Messia chiamato Rivoluzione.
Ecco allora il disprezzo commosso e lucido con cui l’ebreo Gold racconta il modo di essere ebreo che, nel dopoguerra, con i Roth e Saul Bellow ma anche Woody Allen, diventerà l’icona dell’intellettualità borghese americana, perdendo però quella crudeltà popolana, ma anche quella verità politicamente scorretta che il rivoluzionario Gold possedeva: «Discorrere è sempre stata la gioia del popolo ebraico: grandi torrenti di parole sfrenate, esaltate. Il discorrere non esaurisce l’ebreo come gli altri popoli, non logora loro il cervello. Anzi, li rinfresca. Discorrere è il baseball, il golf, il poker, l’amore e la guerra dell’ebreo». «I cristiani, per lei, non erano gente vera. Erano un’astrazione. Rappresentavano il gran nemico, quello che bisognava odiare, temere e maledire (...) Ogni volta che passavamo davanti a una chiesa cristiana, avevamo cura di sputare tre volte; altrimenti potevamo star certi di incappare in qualche sventura».


Unico libro, si diceva, perché dopo l’esaltazione delle battaglie politiche degli anni Trenta, dopo l’orrore del patto nazi-sovietico e della Guerra, dopo le miserie delle persecuzioni maccartiste, Michael Gold si accorse di aver consumato il suo talento dietro l’ombra di una rivoluzione mai scoppiata. E quando, invece dell’incendio apocalittico, arriveranno i fuocherelli delle rivolte del ’68, non lo troveranno più vivo, per una cinica vendetta del destino che solo un grande scrittore ebreo avrebbe potuto inventare.

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