«L’economia laziale desta allarme. Ecco che cosa si può fare»

A Cesare Cursi, presidente della commissione Attività produttive del Senato, chiediamo un commento sui dati di settembre che testimoniano una forte stagnazione dell’economia laziale, con punte di grave crisi nel sud-pontino.
«L’economia del Lazio risente ovviamente del momento di crisi congiunturale che attraversa il nostro Paese e i mercati di tutto il mondo. Ma ha tratti e caratteristiche che la penalizzano ancor più del resto d’Italia».
In che senso?
«Il Lazio ha un’economia basata principalmente su comparti piuttosto eterogenei, quali l’agro-alimentare, la tecnologia, il chimico-farmaceutico, i centri di ricerca, il grafico-editoriale, il cartario, l’edilizia, la filiera del cinema e dell’audiovisivo. Non c’è una specializzazione del settore, che pur presenta aspetti positivi nei momenti di crisi, ma svantaggi in termini assoluti di competitività».
Come si può intervenire?
«Riducendo la pressione fiscale e facilitando l’accesso al credito. Le imprese del Lazio pagano ogni anno livelli di imposte, addizionale Irpef e Irap di più di un punto maggiori rispetto alle altre imprese nazionali e questo, certo, non agevola lo sviluppo».
Buona parte del settore produttivo laziale lavora con gli enti pubblici. Questo penalizza il sistema?
«Anche qui ci vorrebbe più buon senso. Oggi moltissime aziende del territorio sono strozzate da ingenti crediti verso la pubblica amministrazione che, per vari motivi di crisi finanziaria, non è in grado a breve-medio periodo di saldarli. Perché non introdurre il metodo della compensazione tra impresa e apparati pubblici della P.A.?».
Facilità di accesso al credito e incentivi alle imprese: ne parlano tutti...
«È ciò che serve per lo sviluppo del sistema-impresa laziale. Il Lazio risulta la seconda regione più innovativa d’Italia, dopo la Lombardia, e conferma una posizione di leadership nell’innovazione e nell’high-tech, attribuibile alla creazione di network tra Pmi, università e centri di ricerca. Tale potenziale livello di innovazione deve necessariamente essere supportato da un adeguato sistema creditizio che dia impulso all’idea progettuale. Altrimenti è stagnazione».
Spesso l’imprenditore vede la banca più come un esattore che come un alleato.
«È questa la sfida degli enti locali. Assistere con proprie fidejussioni le iniziative che meritano attenzione. Garantirebbe sicurezza per le banche e sviluppo per le imprese. Nel Lazio esiste, ad esempio, Unionfidi spa, ente strumentale regionale, che ha come mission proprio quella di garantire i crediti verso il sistema bancario. Ma solo sulla carta. Chieda a un qualunque imprenditore laziale se si è mai accorto della sua esistenza».
Ritiene quindi necessaria una nuova stagione di incentivi pubblici alle imprese?
«Assolutamente no; intanto non ci sono risorse disponibili, e poi ritengo l’assistenzialismo penalizzante per l’impresa e non uno strumento di sviluppo. L’imprenditore capace non ha bisogno di prebende pubbliche ma ha necessità che il sistema in cui opera creda in lui e quindi possa assisterlo nel proprio sforzo produttivo. Quindi, sì a misure di sostegno al credito e meno fiducia nei contributi in conto capitale, se non dettati da specifiche esigenze di settore».
Il settore chimico-farmaceutico del sud pontino desta vero allarme. È cosi?
«Purtroppo sì. Ma c’è grande attenzione al problema. Il chimico-farmaceutico laziale è il secondo polo nazionale per settore e minaccia centinaia di licenziamenti.

Forse l’attivazione di un contratto di programma con il ministero dello Sviluppo economico potrebbe essere utile per il rilancio del settore. È in agenda su mia iniziativa, a breve, un tavolo tecnico proprio su questo tema».

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