Cultura e Spettacoli

L’emerito cattedratico che censiva le verdure

Il sovrano fu un uomo duro e spietato e commise molti crimini Tuttavia è anche estraneo all’assassinio del Battista...

È pieno di indovinelli il romanzo di Raffaele Crovi Nerofumo, a partire dall’enigmatico protagonista, Ermes Consigli. Non a caso la moglie, a chi le chiede perché continui ad amare un marito tanto misterioso, risponde: «Perché ha il fascino dello sconosciuto». Ermes ha una personalità proteiforme: è un emerito professore di linguistica dell’università La Sapienza di Roma impegnato a censire la miriade di termini con cui nelle varie regioni d’Italia si chiamano le verdure, ma anche un’eminenza grigia dei mass media, dottor Mabuse e cittadino Kane, sui quali imperversa mediante una rivista di indiscrezioni, More, composta in casa di una contessa romana cui è legato da un sistema di omertà incrociate.
Di origini ciociare, amico di Libero De Libero, Ermes in passato è stato quasi un terrorista: con sublime chic, si è limitato a esplodere dei colpi di pistola contro gli alberi dell’Appia antica. Grazie a More ha fatto vacillare governi, direttori di quotidiani, finanzieri. Adesso vive a Olevano, in una splendida villa immersa nel verde. Il paese laziale è stato scelto per ragioni semiologiche: è infatti ad Olevano che Samuel Morse ebbe l’intuizione del suo codice, oggidì universalmente abbandonato. Tra le molte occupazioni del professore c’è infine quella di disegnare, ma a nerofumo, tenui immagini femminili.
Attività così molteplici (accademico, giornalista, divino mondano... ) possono far girare la testa al lettore; o magari, ed è reazione più fruttuosa da un punto di vista interpretativo, convincere che Crovi abbia voluto sceneggiare un tema distillatissimo: quello dei segni, delle parole. Difficile, per uno scrittore, trovare un argomento più essenziale. Eppure il rischio di didascalismo, in questo caso, non c’è. Mentre infatti le idee a una dimensione, in genere, faticano a entrare in un personaggio di romanzo, e se ci riescono tradiscono subito un aspetto indigesto, da allegoria per bambini, ben altrimenti accade quando si tenta di dare sembianze umane a temi complessi, a concetti poliedrici. Come quello, appunto, delle parole. Le quali si dispongono in un arco che va dal puro rendiconto alla menzogna più totale. In altri termini, dallo specchio alla bugia.
Con le parole possiamo dire le cose esattamente come stanno; oppure, come Ermes, velare, manipolare, mentire. Peccato che la verità degli specchi abbia un corrispettivo nella caducità dei loro servigi, come rivelato dal verso di Montale che dà il titolo al racconto: «Non serba ombra di voli il nerofumo / della spera». L’allusione del poeta è rivolta al potere che hanno gli specchi di riflettere ogni cosa senza sforzo, e poi di tornare vergini, sgombri di immagini, e di non serbare alcuna traccia di ciò che in essi era riflesso. Infinita capacità di accoglienza e infinita capacità di oblio: se gli uomini ne fossero capaci, la beatitudine sarebbe a portata di mano. Ma non siamo certi che Crovi sposerebbe questa tesi: al contrario, potrebbe essere il suo principale obiettivo polemico.

Raffaele Crovi, Nerofumo, Mondadori (pagg.

131, euro 16,50).

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