A giudicare dai ripescaggi editoriali, la scapigliatura è di gran moda. Peccato che raramente si eviti il ritornello sulleccentrica bohème di quegli artisti col gusto della contestazione. Si dice che il loro sia stato un fenomeno ibrido, senza maturità ideologica, esauritosi in un impegno estetico e non consapevolmente politico. Di qui, il limite del loro astrattismo o, peggio, delloscillazione tra la loro carica anarchica e la tentazione di un idillio nostalgico.
Tale ambiguità rappresenterebbe il segno di unintrinseca debolezza, come se il rifiuto della società industriale e del conformismo dellItalia post-unitaria dovesse accompagnarsi per forza alla coscienza di classe o a chissà quali presupposti pre-marxisti di tipo rivoluzionario. Gli scapigliati avrebbero offerto non più che una fumosa ribellione («velleitaria», si dice) reagendo al disagio con una sterile risposta psicologica. Solo alcuni sarebbero stati dotati di una maggiore capacità critica, opponendo, in nome della democrazia e di uninvocata repubblica anticlericale, un repertorio insurrezionale di ribollenti idealità antimoderate. Per poi verificare però quanto un eccesso di politicismo li abbia impantanati nella retorica oltranzista e nei limiti provinciali della cultura tardo ottocentesca che scopriva la crisi del positivismo.
È un bene quindi che alla pattuglia scapigliata manchi proprio lo schematismo di unideologia precisa. Così accade che la loro invettiva si confonda col gotico ossianesimo di teschi, cadaveri e tavoli danatomia, che la strada ferrata e la città tentacolare vengano cantati insieme alla bellezza arcadica di territori incorrotti dal progresso. Che insomma la loro suggestione sia, per dirla col titolo della poesia di Arrigo Boito, nel «dualismo», nella perenne scissione tra passato e futuro, spirito e materia, beatitudine e peccato. Dal loro braciere di indignazione, essi attingono una sola disperata esigenza: quella dellenfasi. E non importa con quanta coerenza dottrinaria.
Lantologia curata da Roberto Carnero offre ora una campionatura esaustiva dei versi dei nostri, più autentici decadenti, capaci di passare dalla blasfemia a una ricerca di pura religiosità come se nulla fosse, disposti alla dissipazione pur di inseguire il miraggio di unonesta militanza da poeti maledetti. Essi si trovano daccordo soprattutto sul fatto che, come aveva scritto Baudelaire, laureola di intellettuali sia belle perduta e che possano rincorrere l'utopia di una vita nuova come esaltati catecumeni tra le stamberghe dei bassifondi milanesi, nelle amate osterie o sui letti degli ospedali.
È, a ben vedere, il destino di chi esibisce il proprio ripiegamento interiore e trasforma la poesia nel pianto querulo di una morte incombente: «Sono stanco, languente, ho già percorso / assai la vita rea», scrive Boito, in anticipo sui lamenti crepuscolari. Eppure qui sta la loro modernità, scandagliata nelle latebre del brutto e negli interstizi morbosi di una realtà degenerata che la letteratura ufficiale non conosceva neanche per sentito dire. Certo, né Praga, né Ghislanzoni, né Camerana né alcun altro dei nomi presentati dalla galleria di Carnero ha loriginalità per candidarsi a simbolo di quella temperie.
La poesia scapigliata, curata da Roberto Carnero, Bur, (pagg. 498, euro 15).
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