"L’erba cattiva" che giustifica la lotta armata

Gli irriducibili del centro popolare occupato "Gramigna" di Padova, nato da una costola dell' Autonomia operaia, da anni fiancheggiano l’eversione

"L’erba cattiva" che giustifica  la lotta armata

da Roma

L’identità la proclamano già dalla sigla: Cpo, centro popolare occupato e non Csa, centro sociale autogestito. E proprio su questa differenza di sigle si fonda la storia del centro sociale Gramigna di Padova, il Cpo di appoggio agli irriducibili nato da una costola dell’Autonomia operaia e che dal circuito dei centri sociali italiani si è allontanato inseguendo la via più estrema di giustificazione della lotta armata.
Nessun revisionismo sulla stagione delle Brigate rosse al Gramigna, nessuna autocritica sugli anni di piombo, ma «libertà per tutti i prigionieri politici», come è scritto sul sito, sfondo nero e scritte rosse, l’orgoglioso richiamo per i frequentatori del Web: «Gramigna, l’erba cattiva non muore mai».
Il confine con l’essere fiancheggiatori è molto sottile, anche se le perquisizioni non li hanno mai estinti e gli sgomberi non li hanno dispersi: «In venti anni di vita il Gramigna ha “collezionato” 13 sgomberi ai quali puntualmente seguiva una nuova occupazione», rivendicano gli attivisti sul sito.
Gli anni raccontano di decine di indagati, ma di una sostanziale sopravvivenza nonostante una vicinanza all’eversione che fino a qualche anno fa era testimoniata come una militanza con un foglio, Il Bollettino, sul quale venivano pubblicate le lettere dal carcere dei condannati per terrorismo.
I «vecchi» del covo dell’«erba cattiva» hanno i capelli grigi e si sono presi spesso a cazzotti con i nemici del «Pedro», del gruppo di Luca Casarini, e con gli altri rappresentanti di quei centri sociali da cui è aumentata la distanza dopo la frattura dall’Autonomia negli anni Ottanta. Ma erano di ragazzine le voci che gridavano, al corteo del 19 novembre a Roma, «Dieci cento mille Nassirya» e non avevano molto più di vent’anni i giovani che bruciarono, nella stessa occasione, i manichini di tre soldati: americano, israeliano e italiano.
Ragazzine vestite di nero che, con un foglietto in mano per ricordare i ritornelli di morte, cantavano come una canzone da gita scolastica l’offesa più grave che i parenti delle vittime dell’attentato del 2005 al contingente italiano potessero ricevere in questi anni.
Al Gramigna c’è stato un ricambio generazionale, e un lento isolamento a cui si sono accostati in questi anni altri Cpo, tra cui la Panetteria Occupata di Milano.
Formalmente si organizzano concerti e maratone reggae, ma se si legge tra i documenti riemerge quel ruolo equivoco al limite del fiancheggiamento che ha sempre contraddistinto la storia del Cpo di via Retrone: «Ora e sempre Intifada», si ricorda in un documento.

Mentre il coro contro i militari italiani uccisi viene definito uno slogan «di appoggio alle azioni fatte dalla resistenza irachena come quella di Nassirya contro le truppe di un governo invasore imperialista come l’Italia».

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