L’eroina di Ruccello? Una vittima «cannibale»

Laura Novelli

Nel vederla animare con ariosa dinamicità il foyer dell’Eliseo non la si direbbe una donna nata dall’immaginazione di Annibale Ruccello. E invece questa Alvia Reale in sottoveste di seta color avorio che si agita palpitando come palpita il testo cui dà voce, è una splendida Anna Cappelli: eroina di un ben noto, drammato, monologo al femminile che l’autore campano scrisse poco prima di morire.
Il primo incontro tra l’attrice e questo complesso personaggio risale al ’94, complice la visionaria sensibilità di un regista come Valter Malosti che ne diresse un’edizione originale ed estrema. Adesso la riproposta di quella regia suona ancora più coraggiosa, in uno spazio «altro» rispetto al palcoscenico e ad un orario diverso da quello canonico (le recite cadono alle 19).
Ma, al di là di queste scelte di contorno, ciò che davvero colpisce è il valore artistico e umano di questa pièce, immersa in ombrosi giochi di luce e affidata alla bravura dell’attrice. Alvia/Anna è una donna divisa in più donne ma assolutamente integra nel suo vaneggiamento disperato e, al contempo, lucido. Siamo, infatti, in uno scenario post mortem che la proietta in un tempo eterno di ricordo e strazio, con una tragedia terribile alle spalle.
Ed eccola Anna: subaffittuaria di una padrona di casa gretta e autoritaria, impiegata in un ufficio del catasto avvilente, idealista e romantica malgrado tutto. Eccola alle prese con quel ragioniere che la invita a cena e le promette amore infinito: la convivenza fuori dal matrimonio, il senso di stabilità e sicurezza. Poi, il dramma. Lui l’abbandona dicendole che si trasferirà in Sicilia. Ma Anna non può permettere che la sua esistenza vada in frantumi e decide di ucciderlo, di nutrirsi del suo corpo centimetro dopo centimetro, fino a diventare lui.
Nella bella lettura di Malosti, le «azioni» della protagonista sembrano «stazioni» di un delirio sofferto al quale la Reale concede una recitazione tutta in levare, volutamente sopra le righe, ma proprio per questo affascinante. Le parole esplodono e implodono insieme con espressioni forti, messe a servizio di una gestualità decisa che si serve solo di pochi oggetti e di un vestito da sposa per connotare i diversi passaggi del monologo.
Una prova che si dimostra capace di alludere, raccontare e insieme rivivere.

Come se nella Anna già assassina vibrasse lo spirito di quell’altra Anna: la ragazza sognatrice, così impaurita dal futuro da concedersi ad un amore non «garantito». L’atto di cannibalismo diventa allora l’unica forma di possesso possibile; l’unico scabroso riscatto contro quell’abbandono che è molto più dell’addio di un uomo.

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