L’esercito fantasma che indebolisce la Ue

Livio Caputo

C’è un’evidente e crescente disparità tra i mezzi militari a disposizione dell’Occidente e i compiti che esso è chiamato a svolgere sia nel quadro delle missioni dell’Onu, sia in quello, ancora più impegnativo, del contenimento a livello globale del terrorismo islamico. Questa insufficienza di uomini - più che di materiali - è tanto più evidente, se la si confronta con le situazioni del passato, quando Paesi molto meno ricchi e meno popolati riuscivano a mettere in campo centinaia di migliaia, se non milioni di uomini anche quando non era in gioco la loro sopravvivenza o addirittura non partecipavano ufficialmente alle ostilità: per esempio, l’Italia durante la guerra civile spagnola. C’era, è vero, il servizio di leva, che permetteva di reclutare a costi molto inferiori una quantità molto superiore di soldati. Ma anche prima che fosse inventata la moderna coscrizione obbligatoria, poi abolita quasi ovunque in Occidente negli ultimi venti-trent’anni (ma non in Russia, in Cina e naturalmente non in Israele) gli eserciti europei erano spesso più numerosi di quelli di oggi. Basta sfogliare i libri di storia militare per scoprire che, per esempio, a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, per esempio, Carlo XII di Svezia arrivò ad avere sotto le armi più di un decimo della popolazione.
Oggi è tutto diverso. Qualche settimana fa ha destato una certa sensazione l’annuncio del ministro della Difesa della Germania - una nazione di 82 milioni di abitanti con le tradizioni militari che tutti conosciamo e tra le più ricche del mondo - che la Bundeswehr, con novemila uomini impegnati in varie missioni, dai Balcani al Libano e dal Congo all’Afghanistan, stava superando i limiti delle sue capacità e avrebbe perciò dovuto cominciare presto a ritirarsi dalla Bosnia. Ma Berlino non è certo la sola a essere in difficoltà. Dopo essersi imbarcata nella controversa missione libanese, che potrebbe durare molti anni, l’Italia ha a sua volta esaurito le risorse disponibili e non riuscirà a fare fronte a improvvise nuove esigenze future neppure rischiando il fondo del barile.
La Gran Bretagna, che dopo l’America ha dato il maggiore contributo alla guerra irachena, si trova in una situazione simile, pur avendo l’esercito professionale di più antiche tradizioni. Quanto alla Francia, che ha un certo numero di unità permanentemente impegnate nel suo ex impero coloniale e ora dovrebbe fornire altri 2mila uomini all’Unifil, sta addirittura pensando di potenziare la sua famosa Legione Straniera. Ma il caso più clamoroso è senza dubbio quello della superpotenza americana, 300 milioni di abitanti e un bilancio militare pari al 5 per cento del Pil, che fino a quando sarà impegnata in Irak non potrà, in pratica, affrontare altri impegni e per colmare i buchi è costretta a fare continuo ricorso alla Guardia nazionale. Il vero disastro, comunque, è dato dall’Unione Europea: sulla carta dovrebbe disporre di un corpo di intervento rapido di 60mila uomini, ma non ha poi una politica estera e di difesa comune per gestire il loro impiego; e quando, come è accaduto questa settimana, il capo della socialdemocrazia tedesca Beck ha rilanciato il vecchio progetto di esercito europeo unificato, è stato subito zittito da polacchi, inglesi ed altri che non ne vogliono sapere, perché vogliono potere disporre delle rispettive forze armate senza vincoli e a proprio piacimento.
La carenza di uomini rende naturalmente molto difficile, se non impossibile, fare seguire i fatti alle intenzioni. Il segretario generale della Nato, per esempio, ha detto in tutte lettere che i 31mila uomini che l’Alleanza ha schierato in Afghanistan (con varie restrizioni imposte dai partecipanti, Italia in testa, al loro impiego nelle zone più pericolose) sono del tutto insufficienti a schiacciare l’insurrezione dei Talebani e aiutare il premier Kharzai a portare l’intero Paese sotto controllo: nessuno dei membri dell’alleanza, tuttavia, ha raccolto il suo appello e il risultato sarà che la più potente alleanza militare della storia non riuscirà a venire a capo di qualche migliaio di guerriglieri fondamentalisti e, per non perdere la faccia, la missione dovrà essere prolungata all’infinito. Un discorso analogo vale per il Darfur. Il Consiglio di Sicurezza ha deliberato l’invio di un contingente di Caschi blu per mettere fine al genocidio delle tribù nere da parte degli arabi, ma se anche il governo di Khartum togliesse il veto, sarebbe ben difficile reperire tra i Paesi sviluppati i 20mila uomini necessari. E se, per caso, si rendesse necessario un nuovo intervento in Somalia per impedire che cada nelle mani di Al Qaida, non si saprebbe davvero chi mandarci.
Le conclusioni sono ineluttabili. Se l’Occidente, inteso come Stati Uniti e suoi alleati, pretende di mantenere quell’ordine mondiale cui tutti diciamo di aspirare, deve potere disporre di risorse umane (e quindi anche finanziarie) maggiori. Se non si vuole tornare al servizio di leva, bisognerà incentivare le politiche di reclutamento, offrendo non solo soldi, ma anche incentivi vari: gli Stati Uniti, per esempio, danno la cittadinanza immediata agli immigrati regolari che si arruolano.

Altrimenti, diventerà indispensabile rinunciare a fronteggiare militarmente almeno una parte delle emergenze che si presentano in continuazione, con le conseguenze immaginabili.

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