«Avevano l’aria da ragazzini. Ero al Cafè Leopold. Hanno ferito me e la mia ragazza Katie che è stata colpita al femore. Mi sono girato e l’ho trascinata via». «Ero ospite al Taj Mahal, ho visto due ragazzini che gettavano granate. Poi hanno imbracciato dei fucili semiautomatici». «Erano giovanissimi, quasi bambini». Le voci sono quelle di Rakesh, Steve, David. Parlano ancora sotto choc. Hanno il respiro che trema, un’immagine unica per tutti: chiudono gli occhi e rivedono quelle facce da bambini che sparano, ovunque. Sono entrati tirando calci alle porte, il fucile abbracciato stretto, le mani svelte e nervose. Ai piedi scarpe da ginnastica per muoversi veloci, i pantaloni sportivi con tasche piene di granate da tirare. Vestiti che si potrebbero confondere con quelli usati degli adolescenti arrabbiati di tutte le metropoli del mondo. Cultura hip-hop, felpe con il cappuccio, scritte stilizzate sulle magliette. Poi la pelle inizia a sudare, gli occhi sgranati sempre più grandi per nascondere rabbia, paura, follia. Le prime urla per chiamare le vittime: «Dove sono gli inglesi! Vogliamo gli stranieri! Il resto fuori». Poi le mani che sussultano, i colpi che partono a raffica, pesanti. A ripetizione infinita. Chi resta vivo viene rincorso fino alla fine. L’assalto ai treni è così, colpiscono le carrozze, chi si muove, chi scappa viene inseguito e mirato. Così il blitz agli hotel, ai ristoranti. «Vedevo solo questi occhi grandi da bambino che sparava», dice Garrick, australiano. Hanno colpito e ucciso per tutta la notte, sono rimasti asserragliati insieme alle loro vittime per ore. Sapevano che dovevano uccidere e morire. Sono stati educati e indottrinati per tutta una vita. Eppure sono poco più che bambini. Adolescenti o nemmeno.
Non c’è nulla di nuovo. L’islam cattivo, quello che odia l’Occidente, i martiri, i piccoli assassini, li costruisce in casa, in moschea. Sono l’internazionale del terrorismo minorile. Vanno e sparano dove c’è bisogno. È la storia di Merzoug Hamel, marocchino, ancora chiuso in un carcere dove forse un giorno uscirà, redento. Merzoug raccontava così i suoi giorni di morte: «Ho posato l’Uzi sul manubrio della bici, tolto la sicura. Davanti a me a dieci metri c’era la gente che dovevo colpire. Ma al momento di fare fuoco, gli occhi di alcuni bambini ebrei si sono voltati verso di me e mi hanno fissato, con uno sguardo di purezza. Improvvisamente, qualcosa nel più profondo del mio cuore, che non so ancora spiegarmi bene, mi ha fatto cambiare parere». Merzoug, il marocchino, ha fratelli a Bagdad e a Gerusalemme, nella lontana Europa e nelle nevi del Kashmir. È uno dei tanti volti di questo odio bambino. Qualche volta l’Occidente li spia e sente l’orrore. Come quelle immagini che arrivarono dai campi di addestramento islamici, quelle di Tele Arabica. Ragazzini di 12 anni che simulavano blitz in case e negozi. E poi posti di blocco, con le uniformi nere, all’orizzonte una bicicletta. La fermano. Un uomo scende. Lo fanno inginocchiare e gli puntano la pistola alla testa.
Ecco come si fa. Ecco come dovete fare. Nessuno riusciva a capire, facce pulite inconciliabili con l’odio estremista. Sorrisi esibiti con denti ancora da latte e fucili in braccio più grandi di loro che sparano colpi. Invasati, incomprensibilmente indottrinati. È la generazione perduta dei bambini di Al Qaida, venduti dalle famiglie o partiti volontari. Vanno a studiare nelle scuole coraniche, per ricevere indottrinamento e coraggio, esaltazione. Hanno l'età in cui i bambini occidentali abbandonano i cartoni animati per passare ai videogiochi delle guerre stellari. È il prezzo che il terrorismo chiede al proprio popolo.
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