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L’esercito usa la forza, i coloni capitolano

Cresciuti dai rabbini, vengono poi fomentati dagli ultraconservatori, tra cui in prima fila c’è il partito Kach

Gian Micalessin

da Neve Dekalim

L’evacuazione è incominciata. Alle undici di sera. Come era stato promesso. È incominciata proprio dalla via dove abitiamo. Da tre ore, cento metri più in su, alla sinagoga, risuonano i canti, le urla, le preghiere dei ragazzi delle colline. Sono gli ultimi sopravvissuti dei cinquemila e passa infiltrati che per settimane hanno bivaccato qui e nelle altre colonie. L’altra notte e stamattina ne hanno arrestati ottocento. Lì dentro son rimasti in duemila, forse più. In centinaia si sono barricati nelle sinagoghe.
Sono gli ultimi difensori di Neve Dekalim. Forse gli unici, perché soltanto una minoranza della popolazione è scesa veramente in piazza. Loro giovani, arrabbiati, esaltati, per un giorno hanno tenuto in scacco polizia e soldati. Ora cantano pregano e attendono l’onore delle armi. O l’ultima battaglia. Almeno così credono. Per loro la sinagoga è l’ultima trincea, la nuova Masada, come dicono adesso.
Ma a differenza di 19 secoli fa non hanno davanti né i centurioni romani né le legioni. Questi sono ebrei, come loro. Alcuni persino giovani e credenti come loro. Avanzano nella notte, risalgono la strada. E d’improvviso anche la sinagoga degli ultimi zeloti, tace e attende. Inquieta. Sono 24 tutti in nero, come questa notte di mezza luna. Scalpiccio e imprecazioni. Poi un sussurro nella strada. «Sono qui. Sono qui, sono loro, arrivano». Tacciono gli zeloti. Tremano gli abitanti. Si accendono le luci delle cucine, si aprono le porte, donne con la gonna lunga e il capo coperto si affacciano sulla strada. Guardano i poliziotti, si portano la mano alla bocca. Fanno paura, neri come la notte.
Poi per fortuna ci sono loro, i soldati. Riservisti di mezza età, con le facce da zii e padri di famiglia. Hanno i fogli in una mano, la radio nell’altra. Contano le case, e intanto da quelle porte escono nonni e nipoti, padri e mogli, lattanti e vecchietti. Si trascinano dietro le sedie, le allineano davanti all’entrata. Ci sono le fiamme delle torce, sciabolate di luce nella notte. C’è la nenia di quella chitarra, la voce triste di un padre, il pianto del bimbo risvegliato, il lamento della madre, il singhiozzare della nonna. E quei 24 uomini neri a squadrare la loro preda.
Vorresti chiedere chi sia il bizzarro regista deciso a mettere in piedi una scena che ti parla di orrori andati. C’è quell’urlo, «Auschwitz», che riecheggia nella notte e per un attimo mette tutti a tacere. Poi la nenia e la chitarra riprendono. Il soldato con il volto da zio, la pancia da papà e il passo pesante, si avvicina timido, saluta tutti. Gli offrono un bicchiere, lo fanno sedere. Lui comincia a parlare. Loro lo guardano muti. Lui spiega con cortesia. Quei venti occhi silenziosi non gli concedono l’assenso che vorrebbe. La voce del soldato zio s’incrina. Non sa se piangere o alzarsi, salutare tutti, correre via.
Arriva da noi. «Giornalisti soltanto, la famiglia è già andata». Tira un sospiro di sollievo. Ha gli occhi lucidi. «Sai, non è un lavoro facile, non è né facile né bello». Solo loro, le forze speciali della polizia, l’orrida coreografia, quasi una pernacchia al garbo dei militari, non si muovono. Restano immobili ad attendere che qualcuno si ribelli. Non lo fa nessuno. Neppure il mio vicino. È arrivato dalla Francia soltanto tre anni fa. Gli avevano promesso la terra d’Israele e gli incentivi del governo. Ha la rabbia dei francesi e la rassegnazione di questa gente. Parla con lo zio in divisa, discute, annuisce. Poi l’ultimo moto d’orgoglio. «Vi do mia moglie, vi do mi figlio, ma io no, io resto qua. Mi dovrete portare fuori con la forza».
Ora Neve Dekalim, la capitale delle 16 colonie del blocco di Gush Katif, nel sud della Striscia di Gaza, finalmente si svuota. Mezzanotte è passata, l’ordine è arrivato, e centinaia di famiglie che avevano atteso fino all’ultimo un impossibile miracolo montano in macchina e corrono verso i posti di blocco. Molte famiglie vengono portate via con i pullman.
Mezzanotte era il termine ultimo per portare via le automobili, per non perdere neppure uno degli almeno duecentomila dollari concessi ad ogni famiglia pronta a lasciare nei tempi stabiliti le case. Oggi era stata l’ultima battaglia. I ragazzini delle colline si erano risvegliati con i cancelli abbattuti, con le forze speciali della polizia e le testuggini della guardia di frontiera, veterani di disordini e sommosse già dentro il campo.
Cinquecento dei loro erano già stati arrestati nella notte. Altri trecento vengono portati via nelle sei ore di disordini successivi. Alle 11.40 di mattina, davanti al centro direzionale di Neve Dekalim, l’attacco finale. Gli sbarbati arancione si chiamano tra loro, si cercano, ma restano disperatamente pochi. I duri, i ragazzi delle colline, come vengono chiamati, bruciano cassonetti dell’immondizia e pneumatici, li lanciano come arieti infiammati verso la testuggine e la polizia. I grugni verdi e neri lacrimano, tossiscono, divorano fumo e rabbia. Sulle loro teste si apre una pioggia di bottiglie d’acqua, uova, sacchetti di vernice bianca.
Ma la testuggine si allarga, e un enorme cannone ad acqua su un camion blindato spegne con due spruzzi fuoco e bollori. Quindici ragazzini vengono portati via come salami scalpitanti. Ora la testuggine irrompe, conquista Neve Dekalim. Poi è solo una lenta agonia. Gli ultimi irriducibili possono solo attendere. Sono solo comparse alla scena finale di una recita conclusa per sempre. Hanno bandiere di Israele e striscioni arancione alle finestre, ma anche i container parcheggiati davanti a casa. Attendono solo di essere trascinati via.
I soldati aumentano a vista d’occhio. Altri venti infiltrati vengono arrestati. Lunghe file di macchine sostano ai cancelli.

Questa mattina, al risveglio, Neve Dekalim piangerà la propria sconfitta.

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